A parole siamo tutti attivisti, ma in un modo molto particolare: siamo comodamente seduti sul divano di casa, con una connessione a internet, seguiamo gli hashtag più caldi e cambiamo la foto del profilo Facebook applicando i filtri di questa e quella bandiera – che si tratti di diritti LGBT o sostegno alle vittime del terrorismo. Scendiamo poco in piazza e l’idea di dormire all’addiaccio per difendere un parco occupato non ci sfiora neppure l’anticamera del cervello. Siamo diventati troppo molli? Forse sì, ma non tutto è perduto.
Secondo gli scienziati, l’attivismo da fannulloni – detto “slacktivism” – non ha solo aspetti negativi. Uno studio della University of Pennsylvania ha analizzato diversi movimenti di protesta, tra cui gli eventi di Occupy (Stati Uniti, 2011), Indignados (Spagna, 2012) e Gezi Park (Turchia, 2013), distinguendo chi partecipava attivamente da chi partecipava virtualmente in base alle informazioni di posizione geografica dedotte dai tweet.
Per farla breve, sui social network è possibile identificare due tipologie di partecipanti a una protesta: un nucleo ristretto di manifestanti che twittano e postano direttamente dai luoghi caldi e una “periferia critica” di milioni sostenitori a distanza che servono da vera e propria cassa di risonanza per la manifestazione. Spesso sono proprio i “fannulloni” a suscitare l’attenzione per un evento di protesta da parte di pubblico e media a livello internazionale.
Nel caso di Gezi Park, per esempio, i ricercatori della University of Pennsylvania hanno costruito uno schema a forma di spirale per mappare la posizione dei twittatori, il numero di tweet e la direzione dei retweet: il nucleo di persone presenti alla manifestazione (in viola scuro, vedi schema sotto) ha prodotto molti contenuti che sono stati ripresi dalla periferia (in viola chiaro, ai bracci della spirale) e condivisi ai confini del network. Il risultato? I fannulloni sono i primi attivisti per numero di tweet prodotti, ma senza lo zoccolo duro dei manifestanti scesi in piazza la protesta sarebbe stata un flop.
In effetti, abbiamo visto che il ruolo dei social network durante e dopo la strage di Parigi ha seguito uno schema simile. La notte degli attentati, l’hashtag #PorteOuverte veniva utilizzato su Twitter nel tentativo di indicare abitazioni sicure per la cittadinanza in fuga. Il Safety Check e il filtro della bandiera francese, invece, sono entrati in azione subito dopo su Facebook per informarci sulle condizioni degli amici a Parigi e per farci esprimere sostegno ai francesi.
Sandra González-Bailón, analista esperta di social network e autrice dello studio, ha fatto alcune considerazioni importanti sul ruolo della periferia critica – soprattutto alla luce dell’interesse nei contenuti online da parte di governi, aziende e brand. “Se vuoi che il tuo prodotto diventi virale o che la tua protesta cresca, hai bisogno di un nucleo influente e della periferia che faccia loro eco. Gli utenti periferici non sono slacktivist. Sono la quintessenza per capire perché i prodotti diventino virali o le proteste diventino grandi.”
Per farla breve: possiamo cambiare il mondo solo con i social network? No. Un famoso articolo apparso sul The New Yorker nel 2010 sosteneva che “la rivoluzione non sarà twittata.” Dal giorno di quelle considerazioni sono trascorsi più di cinque anni, le cose sono cambiate e i social network non sono più nemmeno gli stessi.
Facebook e Twitter hanno cambiato il nostro modo di avvicinarci agli eventi globali, ma allo stesso tempo hanno creato una distanza incolmabile tra noi e i luoghi in cui accadono le cose. Non possiamo permetterci il lusso di fondare la nostra opinione scorrendo solo una serie di post o tweet, soprattutto se parlano di fatti che conosciamo poco o nulla. La realtà è molto più scomoda del nostro divano.
FONTE | Vox