Quando in sala si scopre che c’è Roberto Saviano si crea immediatamente un folto gruppo di persone che si schiaccia tra le poltrone per fotografarlo con il cellulare mentre quelli che rimangono seduti continuano ad applaudire per un paio di minuti buoni. Come era prevedibile, sarà lui a monopolizzare l’attenzione e buona parte delle domande.
Si parla delle recenti polemiche con Matteo Renzi, di camorra, dei possibili obiettivi pedagogici dell’arte, di come era vista la mafia ai tempi del governo Berlusconi e di come la si vede ora. In pratica non si parla quasi per niente della serie Gomorra 2, della potenza che ha avuto nel raccontare la mafia e di quella che avrà in futuro, una volta che sarà nuovamente tradotta ed esportata in tutto il mondo. Una cosa, però, Saviano la spiega bene.
“Il lavoro complicato che ci siamo posti è quello di sparigliare” – racconta l’autore di Gomorra – “essere diversi rispetto a tutto quello che è successo prima, e non mi riferisco solo alla tv italiana ma anche al crime internazionale. Gomorra mette in pratica il meccanismo neorealista: nei film o nelle serie tv è quasi impossibile raccontare i vari meccanismi, come funziona un appalto o come si apre una piazza di spaccio, ad esempio. Di solito queste cose vengono sintetizzate, compresse o, in alcuni casi, ignorate. Raccontando le cose, invece, tu eviti un giudizio morale: non le denunci, le racconti. Ti emancipa dal contesto: non si racconta solo la storia di Napoli, si sta raccontando una storia di potere, di famiglie, di economie che prendono forma. Così capisci che ti riguarda, a prescindere dal posto che tu abiti”.
Anche se pare interessasse a pochi, le due puntate che abbiamo visto sono delle vere bombe. Diverse tra loro ma entrambe con una carica emotiva forte che va ben oltre quello che mi aspettavo. Partiamo dalla prima: ti prende in contropiede perché sembra che non succeda nulla per tutti i cinquanta minuti. Ciro è scappato dopo la sparatoria, gli accordi con Conte procedono ma non sono queste le cose principali da raccontare.
C’è una realtà quotidiana fatta di piccoli gesti, attese, notizie che arrivano e poi altre attese. C’è l’emblema della Repubblica Italiana, in un ufficio di polizia, che incornicia con la sua stella a cinque punte gli interrogati manco fossero santi e ci sono interrogatori che si risolvono in poche frasi banali.
Ci sono i morti e le macchine incendiate ma tutto è avvolto da una normalità inquietante, quasi noiosa. Le inquadrature, poi, sono da documentario: ci sono alcuni scorci particolarmente affascinanti ma, la maggior parte delle volte, sono case brutte e non molto di più.
Si accumula un senso di ansia strano, continuo, che ha dei crescendo particolarmente violenti ma non è il tratto più importante. La sua miglior qualità sta nel saperti raccontare la condizione emotiva e sentimentale dei protagonisti con un senso di realtà che ti lascia senza parole.
https://www.youtube.com/watch?v=u_xYmcGLda4
Nella seconda puntata, invece, cambia tutto: ci si sposta a Colonia, dove Genny incontra per la prima volta il padre dopo che è evaso dalla prigione. Si inaugura così il tema ampiamente spoilerato nel trailer: il conflitto tra i due Savastano per stabilire chi sarà a governare il loro regno. Con grande maestria si evita subito la macchietta: non è solo la storiella del figlio che vuole rendere orgoglioso il padre o del problema dell’ambivalenza tra la sete di potere ed i legami di sangue, qui abbiamo una grandissima storia, aperta a molte chiavi di lettura e, soprattutto, a innumerevoli sviluppi o colpi di scena.
E ci viene presentata con le immagini del grande cinema: dove le luci delle stazioni di servizio sembrano astronavi intergalattiche e si resta stupiti da immagini enormi e bellissime, ricavate da semplici depositi abbandonati.
E questa capacità di mescolare una poetica dell’immagine con la cruda realtà è uno dei punti più importanti di Gomorra.
Ne ho parlato anche con Francesca Comencini – uno dei quattro registi coinvolti – le ho rubato due battute mentre si fumava una sigaretta fuori dal teatro: “Queste due anime che sottolinei tu sono proprio la radice quadrata di cosa ci siamo imposti. Perché ci deve essere un linguaggio comune, che è prendere degli elementi dalla realtà – le luci crude, acide, lo squallore quasi fantascientifico di alcuni luoghi – e amplificarli. Partire da un rigore documentaristico – stare sui posti osservarli, studiarli, capire come possono essere filmati – e poi amplificare tutto”.
E aggiunge “È un tipo di poetica che io, Sollima e Claudio Cupellini abbiamo sempre considerato nostra e che poi è stata passata anche a Claudio Giovannesi, che è con noi da questa nuova stagione. Abbiamo fatto riunioni su riunioni, c’è stato un lavoro enorme prima di concepire una grammatica filmica. E poi, altra cosa importante, la direzione degli attori: tentare di comprendere, per quanto difficile, i sentimenti, i meccanismi, le sensazioni, le paure, la smania di potere o il senso di rivalsa di donne che sono schiacciate in un mondo di maschi. Riuscire a capire tutto questo e a restituirlo sullo schermo: non volevamo fare solo uno spettacolo d’intrattenimento, di violenza, di action, ma ottenere una profondità nel racconto dei sentimenti”.
Ed è il motivo per cui Gomorra è una delle migliori serie di questo momento (e non solo di questo momento).