Musica
di Carlotta Petracci 19 Febbraio 2016

Transmediale e CTM, il nostro viaggio nei festival della cultura digitale di Berlino

Perdersi tra le proposte musicali e le suggestioni ipnotiche dei due grandi festival berlinesi

Conversazioni, meditazioni e avventurose esplorazioni sonore hanno riunito anche quest’anno artisti, tech-geeks e visionari digitali a Berlino, in occasione di Transmediale e CTM, i due festival dedicati da sempre alle riflessioni e al rapporto che la tecnologia e la sperimentazione hanno sulle nostre vite e sulla pratica artistica. Tra ansia, crisi e geografie che si sfaldano, più di ogni altra questa edizione è stata ispirata dal viaggio: mentale e psichedelico, viscerale e meditativo, ibrido e partecipato, nella forma e nei contenuti. Da un lato l’urgenza di produrre in una società dominata dal capitalismo digitale, come sottolinea uno degli statement di Conversation Piece, tema conduttore di Transmediale 2016, dall’altro un collasso topografico che si presenta con New Geographies, motivo ispiratore di CTM, come un ricchissimo programma di eventi e perfomance dominato dalle traiettorie.

Partiamo random come le sinapsi, accompagnati dall’impasto sonoro e cantilenante dei T’ien Lai, che hanno il nome di una marca di sigarette inventata da Philip K. Dick ne La Svastica Sul Sole e che in giapponese significa “musica celeste”. Arrivano a Berlino dalla Polonia, con l’obiettivo di diffondere nuove forme di elettronica meditativa. Il loro sound è lisergico, ricco di richiami orientali e collage stordenti, frammisti di kraut, industrial, noise, drone. Psichedelia pura. Anzi no, la parola non basta. Si tratta di “brutalismo magico”, definizione che si avvale della potenza terminologica della corrente architettonica successiva al Movimento Moderno, ispirata dal béton brut di Le Corbusier, unita al fascino del “realismo magico”, ma che in realtà identifica per loro una liberazione rituale urbana.

 

 

Da un’estasi mistica data dall’eccesso passiamo per diretta contrapposizione al suono limite della modernità. Siamo all’HKW e nel buio più totale esplodono le sirene. Basse bassissime, alte altissime. In mezzo ci sono frammenti della storia del rock, dell’hip hop, della techno. Si accende la luce e incontriamo sul palco Alona Rodeh, visual artist israeliana con cui abbiamo chiacchierato poco prima. È insieme a Mule Driver, ex militare e musicista di Tel Aviv. In Fear of Silence, or A Brief History of The Air-Raid Sirens, ripercorrono in meno di un’ora, attraverso una perfomance cross-disciplinare in cui si alternano suoni, musica e lettura, la multisfaccettata identità di un rumore – dalle sperimentazioni degli anni Venti, all’ossessione per la sorveglianza, alla potenza simbolica degli allarmi durante la guerra fredda, all’affermazione afro-americana dell’hip hop più politico degli Arrested Developement e dei Wu-Tang Clan, fino a deragliare nelle strade malfamate del Gangsta Rap – dimostrando tutto il suo fascino e la sua ambivalenza.

 

Hello City!, storytelling perfomance by Liam Young, courtesy Transmediale  Hello City!, storytelling perfomance by Liam Young, courtesy Transmediale

 

Immaginiamo poi di saltare su un taxi, in una Detroit del futuro, che da ghost town si è trasforma in smart city riportata in vita dai cinesi. A bordo, un gruppo di adolescenti alla ricerca dell’“isola che non c’è”, in una città mappata e iperconnessa, dove nulla esiste all’infuori di ciò che è digitalmente cartografato. Motore dell’azione: trovare un luogo dove fare un party. Come? Hackerando la città e sperimentando strane forme di camouflage, per sfuggire al controllo delle macchine. Siamo nel mondo della speculative architetture di Liam Young che incontra la critical science-fiction. La perfomance è Hello City!, una narrazione onnivora e multilivello, che appare come il tentativo di rappresentare il lungo lavoro di ricerca che sta dietro alla produzione di un film. Il cinema, per l’architetto londinese, portavoce del gruppo di ricerca Tomorrow’s Thoughts Today, rappresenta infatti il medium privilegiato per re-immaginare l’architettura e la città, a partire da un’idea: “Esagerare il presente per cambiare il corso delle nostre azioni”.

 

 

Rimanendo in tema di finzione, una delle perfomance più attese di quest’anno, è stata senza dubbio Still Be Here, commissionata da Transmediale e CTM alla giovane artista Mari Matsutoya, in collaborazione con alcuni dei protagonisti della sperimentazione sonora e visiva contemporanee: la producer Laurel Halo, la virtual artist LaTurbo Avedon, il digital artist Martin Sulzer e il coreografo Darren Johnston. Star assoluta è stata Hatsune Miku, la virtual pop singer giapponese creata nel 2007 dalla Crypton Future Media, sulla falsariga della cyber protagonista di Idoru di William Gibson. La perfomance ha voluto riflettere sulla decostruzione di una delle icone più potenti del ventunesimo secolo, nata come prodotto di marketing per rappresentare l’immissione sul mercato di un nuovo software vocaloid e diventata successivamente “il futuro della musica” pop globale.

 

Still Be Here, courtesy Transmediale  Still Be Here, courtesy Transmediale

 

L’Orientalismo in versione candy è anche al centro della collaborazione tra la producer svizzera Aïsha Devi e l’artista cinese, dall’estetica kitsh e grottesca, Tianzhuo Chen, che nel live al Berghain hanno dato vita a una perfomance spettacolare e viscerale. Lontana dalla decostruzione sonora di Still Be Here operata da Laurel Halo, Aïsha ci ha prospettato un’altra chiave di lettura della sperimentazione musicale, che ha messo in luce l’aspetto magico della dimensione rituale, quello capace di aprire le porte della percezione, che, unito all’immaginario di Tianzhuo, ultracarico di riferimenti rave, voguing, LGBT hip hop e al corpo del ballerino Beio, hanno rappresentato uno dei momenti di ibridazione sonora e visiva più spinti di tutto il Festival.

 

 

Dagli influssi ipnotici di Aïsha siamo poi passati alla meditazione vera e propria. Quarantacinque minuti di silenzio insieme alla compositrice americana Pauline Oliveros all’HAU 3, per l’iniziativa di beneficenza Listening For Peace. Una pausa breve ma intesa, alla ricerca del nostro suono interiore, in una settimana densa di appuntamenti, in cui nomi e contenuti non sono mancati. Tra questi, impossibile dimenticare François-Joseph Lapointe, ricercatore e bioartista di Montreal, con la sua perfomance 1000 Handshakes: un richiamo al situazionismo e allo stesso tempo un modo per mappare e raccontare attraverso una semplice stretta di mano, lo scambio batterico che intercorre tra le persone e quindi le nostre relazioni microbiomiche. Se l’anno scorso con la bioartista newyorkese Heather-Dewey Hagborg avevamo scoperto che la sorveglianza non è solo digitale ma anche biologica, quest’anno con Lapointe ci siamo trovati di fronte a un’altra verità: la nostra identità è fatta di batteri.

 

 

Tra mappe e connessioni siamo così giunti alla fine del nostro viaggio, di questa geografia a punti, salti e impulsi, che dalle speculazioni teoriche sulla rete di Transmediale converge verso uno degli eventi più ammalianti del CTM. Inizia con una sfera luminosa sospesa nell’aria, Deep Web, la perfomance immersiva del light artist Christopher Bauder e del compositore e musicista Robert Henke. 175 sfere luminose, 12 sistemi laser ad altissima potenza, una super-struttura di 25 metri per 10, danno forma davanti ai nostri occhi a una mastodontica architettura luminosa interattiva nel ventre della monumentale architettura post-industriale del Kraftwerk. Originariamente commissionata dal Festival of Lights di Lione e presentata per la prima volta a Berlino, Deep Web ha reso tangibili decenni di ricerche e sperimentazioni sul suono e sulla luce, ricreando una coreografia iridescente e cinetica assolutamente spettacolare.

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