Ieri sera c’è stata la finalissima di The Voice of Italy 2018, il talent musicale di RaiDue, quello con lo studio molto rosso e i giudici che ascoltano il cantante girati dalla parte del pubblico, poi se gli va, pigiano il pulsante e li vedono in faccia. Quest’anno la squadra vip è cambiata quasi del tutto: presenta Costantino della Gherardesca ma si vede da subito che imbrigliato nel format a dover fare la balia ai casi umani, non è il suo habitat naturale.
La squadra dei coach è formata da J-Ax con le sue battute pronte (pronte nel senso che sembra qualcuno gliele suggerisca), Francesco Renga che la mena con la voce, l’intonazione e se la sente un casino, Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, forse la più naturale del quartetto, quindi meno televisiva per la Rai e Al Bano, che alla fine c’ha guadagnato in immagine perché a parte alcune sparate che uno dice boh sarà l’età, sembra quello che si diverte di più.
Facciamo tutto questo preambolo perché con tutta probabilità non sapete di cosa stiamo parlando, visto l’hype pari a zero che ha avuto questa edizione. La riassumiamo col nostro solito garbo: le prime tre o quattro puntate sono state registrate la stessa giornata, si vede dallo stesso vestito e stessa acconciatura da dark metal lady di Cristina Scabbia. Cioè, la produzione non ha neanche fatto cambiare i coach per simulare una diffusione nel tempo del contenuto, giusto per farvi rendere conto della cura per il prodotto.
Delle canzoni cantate dai cantanti potremmo fare i cinici e fregarcene direttamente: mai qualcosa che faccia parlare davvero il pubblico da casa, solo cover di pezzi quasi tutti stagionati cantate più o meno dignitosamente. Giusto un paio di sussulti quando un talento incompreso s’incazza, manda in culo tutti e vola la chitarra in mezzo allo studio, oppure quando un ragazzo entra in studio vestito da drag queen.
La cosa davvero stucchevole di The Voice of Italy non è mica il montaggio che sembra amatoriale, i testi non all’altezza, il ritmo latitante o tutto quel cash in meno che rende il programma la versione cecena di X Factor, piuttosto la spasmodica ricerca del caso umano a tutti i costi. Ogni due persone nei casting ce n’è una che ha avuto una tragedia di qualche tipo: scomparsa di uno o entrambi i genitori, sorelle, fratelli, animali domestici, Tamagotchi. Oppure sono state vittime di bullismo, tartagliavano a scuola, avevano le tette troppo grosse o troppo piccole, non sanno ancora l’inglese, portano i pantaloni a zampa, sono arrivati col gommone, sono arrivati senza nessuno che creda in loro, hanno scoperto dove si trova il Santo Graal ma non hanno amici a cui dirlo, etc.
Piangono quasi tutti e qualcuno dovrebbe spiegare a quelli della Rai che fare musica non vuol dire piangere o raccontare i cazzi propri di casa, significa semplicemente fare musica. Comunque la storia è stata velocissima, da un milione di cantanti siamo passati a quattro, uno per coach, che si sono sfidati e ha vinto Maryam Tancredi del team Al Bano.
Con tutti i buoni modelli per far passare la musica da mamma Rai, tipo Ossigeno di Manuel Agnelli o Brunori Sa di Dario Brunori, perché questo talent (nato un po’ sfigato) non riesce a sdoganarsi dalla formula alla Barbara D’Urso?