Basta guardare la bacheca digitale dei social per capire quanto i Cure abbiano fatto il concerto perfetto nella domenica finale del Firenze Rocks 2019. Un tripudio, nessuna lamentela, commenti estasiati e soprattutto stupiti del pubblico che non credeva di poter assistere alla storia di una band che è sulle scene da più di 40 anni, sintetizzata in un concerto di due ore e mezza con, al massimo, un paio di minuti di pausa.
Tanto per farci un’idea, The Cure è una band che da sempre gira intorno al suo leader, Robert Smith, 60 anni, make up e capelli sparati con la lacca, vestito di nero, teneramente imbolsito eppure credibile e capace di tirar fuori la voce di trent’anni fa senza mai prendere una nota falsa, con un accento che quando parla non si capisce un cazzo, ma di certo non ha bisogno dell’eloquio per intrattenere le svariate decine di migliaia di persone presenti alla Visarno Arena di Firenze. Alla sua sinistra, ma poi non sta mai fermo, Simon Gallup, 59 anni, nella top list dei bassisti più importanti della new wave, che ha definito il suono dei Cure negli anni e ha sempre dato dinamismo sul palco, per controbilanciare le movenze da orso ballerino di Robert Smith. Loro sono l’anima dei Cure, i membri più longevi della band, accompagnata in questo tour (e da un po’ di anni a dire il vero) da Roger O’Donnell (64 anni) alle tastiere, quello che ha contribuito a creare il suono sinfonico/onirico di Disintegration, Reeves Gabrels (63 anni), storico chitarrista di David Bowie dal 1987 al 2000 e il pischello Jason Cooper (di soli 52 anni) alla batteria: solido, roccioso, instancabile, una macchina.
Con questa formazione ormai consolidata, i Cure (tolgo definitivamente il The davanti se non vi dispiace) salgono sul palco alle 21 col sole in fronte e la luna piena alla loro sinistra. Senza tanti effetti speciali, stordiscono il pubblico con una cinquina senza pause: Shake Dog Shake, Burn, From the Edge of the Deep Green Sea, A Night Like This, Just Like Heaven e Pictures of You, lasciandoci imbambolati di fronte a tanta bellezza.
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Questo sarà il letmotiv del concerto: pezzi suonati uno attaccato all’altro, poche pause, canzoni pescate da tutta la storia della band, da A Forest, Primary, Play for Today, One Hundred Years e l’obbligato finale Boys Don’t Cry del primo periodo a 39, passando per i successi Lullaby, Why Can’t I Be You, Friday I’m in Love, Close to Me, Lovesong e Pictures of You ma regalando anche autentiche chicche, tipo Push tratta da The Head on the Door, uno dei momenti più alti della serata. Non sono mancati neanche i cori da stadio su In Between Days che hanno fatto venire la pelle d’oca, ma tutto lo spettacolo lo fanno loro sul palco. Qualche video dietro, bei giochi di luci, zero coriandoli, fuochi d’artificio o effetti scenici. Una band storica che ha inventato e rivoluzionato generi, immortalata mentre si gode il doveroso Oscar alla carriera e lo onora suonando senza risparmiarsi.
Parliamoci chiaro: ci sono band che riempiono stadi, che con una sola canzone dei Cure ci avrebbero costruito sopra una carriera e non parlo certo di quegli inutili dei Muse, ma quando hai davanti quelli veri che fanno un concerto così, non puoi fare altro che inchinarti alla grandezza. Il pubblico davanti era del tutto eterogeneo: ragazzini accompagnati dai genitori, sessantenni e tutto quello che sta nel mezzo. Molti outfit nero pece, nonostante il caldo tropicale di Firenze, qualche capello cotonato, qualche maglietta gotica, tutti con le braccia rivolte al palco in adorazione. Spettatori signorili che non hanno preso a fischi o bottigliate i Sum 41 per essersi esibiti in apertura, per una combo di assoluta antitesi musicale, preferendo prendersi quell’oretta per mangiare e pausa cesso. La scelta di far aprire il concerto a una meteora pop punk dei 2000 e di far suonare gli Editors alle 17 è stata davvero fastidiosa, ma di certo non è bastata per guastare la gioia di vedere i Cure di nuovo a Firenze dopo 19 anni.
Riassunto: Cure strepitosi, serata perfetta alla faccia di chi vorrebbe gli over 50 bolliti di default. Chiamatela pure nostalgia, finché è così bella non possiamo farne a meno.