Soshi Takeda – Floating Mountains
Possiamo aggiornare la famosa frase in “non si esce vivi da gli anni Novanta?. Andrebbe recitata come un mantra, specialmente alla luce delle derive, soprattutto positive, che la pop culture latamente intesa ha avuto quest’anno. Anzi mi spingo a dire che già si occhieggia a una malcelata quanto concreta nostalgia dei primi anni Duemila, quindi preparatevi. Al netto di tutto questo, davanti a un lavoro come quello di Soshi Takeda non si può fare altro che applaudire di cuore. Floating Mountains è una specie di uber-bignami su tutto ciò che di buono e bello ci sia nel mondo della vaporwave . Con pezzi quali Ancient Fish, che paiono essere usciti da un qualche gioco platform degli anni Novanta (ogni riferimento a Mario 64 è voluto!) quello del producer giapponese è un disco gigante, colossale, che si nutre di micro-culture e sottogeneri musicali per renderli qualcosa di impattante. Una magia quasi da stregoneria nera, o meglio, da alchimista d’acciaio.
Mattia Nesto
James Blake – Friends That Break Your Heart
R’n’b mischiato con elettronica sperimentale ma intriso di nostalgia, oppure un Bon Iver da ballare tristi. Ci sono così tante reminiscenze ed influenze che è difficile scegliere un’unica immagine per parlare di James Blake. Friends That Break Your Heart riprende il mood dei primi due lavori dell’artista inglese, con testi pieni di spleen che si intonano alla perfezione con le delicate melodie del pianoforte e atmosfere soul. Nulla di nuovo per uno dei più abili compositori degli anni dieci. James Blake, proprio come un vino buono, non invecchia. Nel suo ultimo album non vanno ricercate sfumature che non sono mai state rinvenute, ma bisogna saper apprezzare la nuova profondità che solo il tempo ha saputo donare a quelle che ci hanno fatto innamorare di lui.
Marco Beltramelli
The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die – Illusory Walls
Nel panorama post hardcore statunitense – che non amo particolarmente – i The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die sono quella band a cui non posso proprio resistere. Mai fuori luogo, mai pacchiani, per quel tocco folk romantico che li ha sempre caratterizzati. E il loro quarto album, Illusory Walls, è l’ennesima e non necessaria riconferma della loro grandezza. Senza andare a cercare IL pezzone da ricordare, si sono dati l’unico imperativo di suonare come delle bestie. Il risultato è meno accorato rispetto al passato, ma è ugualmente una goduria. Pezzi come Invading the World of the Guilty as a Spirit of Vengeance – una cavalcata che distrugge lo stereo sotto colpi di chitarre e saliscendi ritmici – non può che venir fuori da una grandissima band, e i ragazzi di Willimantic lo sono, macinatori di suono.
Gabriele Vollaro