Musica

I migliori album della settimana

Myriam Gendron – Ma délire – Songs of Love, lost & found

Prendere la tradizione, impararla a menadito e poi squadernare tutto, cambiare l’angolatura da cui si vede – e si canta –  il mondo: grossomodo è questo ciò che ha fatto Myriam Gendron per il suo nuovo, bellissimo, disco Ma délire – Songs of love, lost & found, un titolo che, va da sé, è già una dichiarazione programmatica. Qui siamo davanti a un lavoro davvero importante perché arrivato dopo una lunga carriera importante come è quella della cantautrice canadese, che qui trova piena espressione e completa maturità. Una canzone – per citarne una – come Poor Girl Blues è in fondo molto semplice nella sua impostazione, ma viene eseguita con una dose tale di perfezione da lasciare a bocca aperta. Ed è proprio questo il fattore decisivo del disco: una perfetta esecuzione, una direzione artistica solida e un animo fermo, rispettoso del passato ma desideroso di futuro. Un grandissimo album, insomma.

Mattia Nesto

Wiki – Half Gold

Forse non sarà il nome più appariscente delle Grande Mela, ma certamente un esponente di culto della nuova scena “underground” della città più fica del mondo. Wiki, rapper ventisettenne di New York, ha mosso i suoi primi passi nell’hip-hop con il trio dei Rarking e nel 2016 ha deciso di intraprendere la propria carriera solista. Con il suo suono caldo della estcoast, Half Gold, il terzo album pubblicato con questo pseudonimo, è l’ennesima piacevole conferma. Per i nostalgici di Jay-z.

Marco Beltramelli

Tirzah – Colourgrade

La grandezza di Tirzah come compositrice non la scopriamo certo oggi, e non c’è nemmeno da stupirsi se ascoltando Colourgrade si rimanga in uno stato tra l’estatico e lo stranito. L’artista britannica ha fatto un piccolo miracolo, andando a intestardirsi in una direzione stilistica assolutamente inusuale. Questo disco inizia ostico, con strutture ripetitive e quasi alienanti, poi si addolcisce verso un pop molto minimalista, e infine torna nuovamente a metterci a dura prova con due brani – Sleeping Crepuscolar Rays – che sono un doppio capolavoro di dolcezza ruvida. Come nella tradizione di rock lo-fi più ardita degli anni ’70, ma con lo spirito che tende verso il soul, quella di Tirzah è una performance di tre quarti d’ora, che ha bisogno di un grande impianto per risuonare in tutti i suoi strati, per esaltare i piccoli ruggiti di chitarra, e le variazioni imprevedibili di una voce che fa venire i brividi.

Gabriele Vollaro

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