Il 20 gennaio del ’97 usciva Homework, il disco d’esordio dei Daft Punk. È stato uno dei momenti più interessanti che la musica pop abbia mai conosciuto: è la dimostrazione che anche l’elettronica può diventare iconica quanto il rock. Come è stato possibile riuscirci con una drum machine, un campionatore e una canzone il cui testo conta solo tre parole?
Andiamo con ordine. All’inizio i Daft punk erano in tre – Guy-Manuel de Homem-Christo, Thomas Bangalter e Laurent Brancowitz – e si chiamavano Darlin in onore di una canzone dei Beach Boys, anche se il loro sound era decisamente più rumoroso. Una recensione dell’inglese Melody Maker li aveva definiti “a daft punky thrash band” e, quando il gruppo si sciolse e Brancowitz andò a suonare in quelli che poi sarebbero stati i Phoenix, Homem-Christo e Bangalter decisero di tenersi quel nome.
I Daft punk hanno sempre ascoltato musica vecchia: l’hip hop, le chitarre degli anni sessanta e il funk dei settanta. Ai tempi in cui era uscito Homework veniva considerato un disco retro e ai due andavano benissimo così: non hanno mai negato di amare l’house music e non volevano per forza fare musica nostalgica ma era chiaro che i loro riferimenti erano diversi da chi nei ’90 stava vivendo in pieno il mondo del clubbing. Se lo riascoltate oggi capite bene come dietro a quelle canzoni ci fossero due persone che stavano cercando un’identità forte, non importa quale fosse o in che modo l’avrebbero trovata.
Homework è un album che mette insieme tanti aspetti ambivalenti: sono canzoni che aspirano al pop ma hanno struttura e lunghezza di una traccia house, hanno un suono grezzo e decisamente violento (Rollin’ & Scratchin’ e Rock ’n Roll, per dire) ma vogliono anche essere funky e groovy.
La cosa più affascinante sta nella sua assoluta semplicità. È un disco letteralmente fatto in cameretta – da qui il titolo – e con pochissimo: c’è una batteria elettronica, un synth, un campionatore e non molto di più. Nonostante la produzione fosse così ridotta all’osso sono riusciti a creare dei singoli che ti tengono incollato alla traccia per sette minuti di seguito (Around The World, definito dalla BBC come “uno dei singoli più orecchiabili del decennio”).
https://www.youtube.com/watch?v=k5dqPiLy4uY
I Daft Punk non hanno inventato un genere, ma non si è mai capito che genere facessero. Di solito quando nella musica una cosa è semplice ma al tempo stesso imprendibile – ad esempio, i Beatles – con buona probabilità diventa un successo. Ma per quanto questo particolare mix di fighetteria e rave culture sembrasse costruito a tavolino, non era per niente una furbata pensata solo per guadagnare soldi. Loro ci credevano davvero, quanto meno nel ’97. In fondo erano solo due sfigati che non si trovavano a loro agio nei club o nei party esclusivi e hanno deciso di inventarsi un mondo tutto loro.
“Siamo completamente contro ogni tipo di star system” – hanno dichiarato in un’intervista poco prima che uscisse Homework – “È l’opposto di quello che siamo, siamo producer, non performer. Non ci comportiamo da star, se qualcuno ci chiede un autografo, preferiamo prenderci del tempo e parlarci insieme. Non mi sento nemmeno così a mio agio a farlo, proprio perché non sono una pop star”.
Certo, se pensiamo alle piramidi che si si sono fatti costruire 10 anni dopo o alle tute da robot costate – pare – 65,000 dollari, arriverete alla conclusione che con il tempo, forse, la cosa gli è sfuggita di mano. Lo stesso Homework ha avuto una promozione di tutto rispetto, il video del primo singolo (Da Funk) è stato girato da Spike Jonze, e l’altro da Michel Gondry (Around The World), ma se lo riascoltate oggi troverete tanti esempi di come l’album non cercasse volutamente il consenso di tutti, anzi. Homework è un disco duro, che alla seconda traccia infila il megafono della polizia che interrompe un rave, giusto per mettere in chiaro subito le cose; presentarsi alle interviste con le maschere da rapinatori ha fatto il resto. Così è iniziata l’epopea Daft Punk.
È difficile che un musicista elettronico lasci un segno reale nell’immaginario della gente comune. Il mito è sempre stato di dominio del rock. Un dj può anche fare un mucchio i soldi ma rimarrà sempre e solo una persona dietro una consolle che schiaccia i bottoni, di quelle che a stento le riconosci per strada il giorno dopo quando smaltisci la sbornia; loro ci sono riusciti proprio perché nessuno sapeva chi fossero.
Ci sono state altre rivoluzioni simili: i Kraftwerk prima di loro, ad esempio, i Major Lazer una decina d’anni dopo. È bello quando accade: ci fa capire che siamo umani – dopo tutto – anche se ascoltiamo una musica che di umano non ha proprio niente.