Il 21 gennaio 1921 al Teatro Goldoni di Livorno durante il Congresso del Partito Socialista Italiano andò in scena la scissione della frazione comunista: un fumetto edito da Kellermann ne racconta la cronaca.
Se c’è una cosa che mi ha impressionato, leggendo il bel fumetto Quelli che a Livorno di Silvano Mezzavilla e Luca Salvagno, edito da Kellermann e con una prefazione di Michele Serra, è la qualità, veramente abbacinante, dell’eloquio, dei discorsi e della retorica dei partecipanti al “mitico” congresso di Livorno del gennaio del 1921, quello, per capirci, in cui è nato il Partito Comunista Italiano, staccatosi dal Partito Socialista Italiano. Come sottolinea lo stesso Serra in sede di prefazione questa, perciò, è una storia di una scissione, la prima delle tante che il campo della Sinistra politica italiana ha visto e sta vedendo nel corso di questi ultimi anni. Eppure, sopra tutto, oltre alla minaccia fascista, ben delineata dai discorsi che Mezzavilla fa pronunciare ai propri personaggi, c’è il dettaglio, non di poco conto, che ho sottolineato prima: qui tutti quanti parlano un italiano eccellente e anche quando c’è da alzare il tono della voce, da attaccare le posizioni avversarie o, addirittura, insultare lo si fa con un eloquio eccellente.
Ma questa è anche e soprattutto un racconto nel quale si menziona come la Sinistra, soprattutto quella italiana, sia stata praticamente da sempre alla ricerca di una propria identità, in un continuo anelito ad essere più rivoluzionaria in senso autentico, in una costante spinta a voler fare un passo più in là nei confronti della dittatura del proletaria che, forse, non arriverà mai. Eppure durante le concitate fasi del Congresso di Livorno, al di là delle diverse fazioni che si “scontrano” dialetticamente, c’è un dato di fatto incontrovertibile: tutto è già scritto. Le partecipanti (ancora poche le donne presenti ma in considerevole aumento) e i partecipanti infatti hanno già bene in testa la cronaca degli eventi per così dire: la fazione degli Unitari, maggioritaria e quella dei Riformisti finiranno per trovare un accordo portando a una consequenziale rottura da parte della delegazione dei comunisti che, non a caso, pochi giorno dopo l’avvio dei lavori prenderanno a nolo un altro teatro, il teatro San Marco che sarà la futura sede della primo congresso del Partito Comunista Italiano.
Insomma in Quelli che a Livorno la politica non solo è una cosa seria, oltre che nobile ma è anche l’unica cosa che conta: gli astanti del Teatro Goldoni vivono per essa e da essa traggono la forza per tentare di condurre, con risultati ora positivi ora negativi, la società italiana verso le magnifiche sorti e progressive. Ma questa è anche una storia da leggersi “con l’audio accesso”: già perché, in vignette molto belle curate da Salvagno con uno stile pittorico a acquarello, si assistono a continui momenti nei quali le donne e gli uomini dell’Interazionale intonano canti e canzoni per significare, in una strofa, in un ritornello, il loro senso di appartenenza al grande sogno del proletariato mondiale e la loro alterità al marcio mondo borghese. Scusate, mi sono commosso e emozionato.
Ecco allora che a un secolo da quei fatti, Quelli che a Livorno è un documento prezioso, oltre che artisticamente ben confezionato. Ci ridona il sapore e il “polso” di quel tempo lontano e ci insegna una cosa: non ci si improvvisa, mai, esperti ma solo dopo studi e gavetta si può dire qualcosa di sensato. E se lo si fa cantando in nome delle lavoratrici e lavoratori di tutto il mondo, beh, è ancora meglio.