Citando Bianconi (ma anche il suo precedente racconto), non sono tutte romantiche le storie su Milano. Alcune sono acide, altre insipide, altre ancora crudeli. Ed è di questo tenore l’ultima opera di Sergio Gerasi, L’Aida, pubblicata per Bao Publishing. Non si tratta propriamente di un’Aida verdiana, anche se la protagonista della storia è rinchiusa in una prigionia altrettanto asfissiante, quella delle scuole di moda, degli ambienti altolocati che le sono stati imposti dalla madre, ricca e piena di aspettative nei suoi confronti, ma soprattutto soddisfatta che l’adolescenza della figlia sia trascorsa “senza troppi guai”.
Il modo molto ingenuo che Aida ha per aprire un varco nel perbenismo che le è stato imposto è mettersi in abiti inadatti per il suo ceto, vagare di notte per le strade milanesi in cerca di spunti da fotografare, sfogando così la sua trasgressione attraverso un obiettivo. Una sera come le altre, vagando per le strade del centro, s’imbatte in una banda di “uomo-ragni” e, dopo averli seguiti fino al covo, fa la loro conoscenza. I The Virus sono una comune artistica formata da gente emarginata -un po’ bimbi sperduti di Peter Pan, un po’ combriccola di Fagin- che ogni notte allestisce un’opera in un punto simbolico della città. Tra il situazionismo e land art, la loro intenzione è risvegliare le coscienze dei cittadini e riaprire le vene della socialità spontanea ormai incatenata nelle logiche frenetiche e utilitaristiche del lavoro. Il loro approccio è aggressivo, di sabotaggio, come quando hackerano gli smartphone delle persone per restituirgli il tempo che altrimenti andrebbe perso o quando ricoprono un palazzo di Piazza Missori con striscioni recanti tremendi insulti trovati su Facebook. Non essendoci un antidoto a tutta questa nevrosi tecnologica, l’unica via d’uscita è iniettare “un Virus che azzeri tutto”.
Da questo momento la vita della ragazza si fa ibrida, a livello narrativo iniziamo a perdere la chiarezza del suo personaggio. Aida cerca di legarsi sempre di più al gruppo, ma non riesce a svincolarsi dalle proprie paranoie, non si capisce quanto effettivamente creda alle azioni dei The Virus e quanto voglia prendere a schiaffi i suoi amici, Ludovica e Tancredi, anch’essi altolocati. In diversi momenti Aida deve fare i conti con gli effetti degli anti depressivi, le deformazioni del suo viso, le smorfie di dolore che sfociano nel pianto, sono evidenziate perfettamente dalle tinte acquarello. Tuttavia la sua anoressia viene trattata abbastanza superficialmente e il rapporto con la madre, seppur palesemente distrutto, non è mai presentato in modo complesso.
L’efficacia del racconto va sgretolandosi quando inizia a vacillare l’ispirazione dei The Virus, sempre più divisi e in certi casi dubbiosi riguardo l’utilità di quel che stanno facendo. Una scelta precisa dell’autore che ha deciso di accantonare il motore che aveva animato la storia fino a quel momento. Ma prima del secondo ribaltone improvviso Gerasi recupera il filo e, soprattutto, il senso di tutta la graphic novel, facendo preparare alla sua Aida la performance più significativa e agghiacciante. Le ultime pagine sono attraversate da un suo breve monologo, che testimonia la nuova voglia di cambiare, di non rinnegare più le proprie emozioni, di non essere più così uguale a Milano. La quantità di problemi che Gerasi ci mette davanti agli occhi ne L’Aida è enorme. Pagina dopo pagina scopre i nervi della sua città, mettendo in dubbio tutti i modi con cui pretende di accudire i suoi figli, sempre più grigi e distaccati. Il terzo volume pubblicato da Gerasi con Bao Publishing rivela la grandissima capacità narrativa dell’autore, ma la sensazione è che sul finale Sergio abbia avuto troppa fretta, non si sia dato il tempo di sviscerare ognuno di questi macigni con la giusta cura. Forse 150 pagine non sono state abbastanza, sta di fatto che la selva oscura meneghina va assimilata lentamente, per evitare di essere sovrastati e vinti dai fardelli delle sue strade grigie.
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