Quando abbiamo visto in fumetteria Due attese di Maurizio Lacavalla, pubblicato da Edizioni BD, la prima cosa che ci ha colpito è stato, senza dubbio, il tratto del disegno: un tratto deciso, quasi brutale nella sua essenzialità che ancora prima di leggere la storia ci ha lasciato senza fiato senza considerare che alcuni scorci ci hanno fatto venire in mente le atmosfere enigmatiche e sospese di David Lynch. E quando abbiamo terminato di leggere l’intricata trama, fatta giustappunto di “due lutti e plurime assenze” non potevamo che raggiungere lo stesso Lacavalla per farci raccontare come è nata questa sua, incredibile, opera d’esordio.
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Come abbiamo scritto nell’introduzione del nostro pezzo, anche solo sfogliando il tuo Due attese, si nota l’incredibile forza che dai, proprio a partire dal tratto, alle strutture architettoniche e ai particolari, sia delle stesse sia dell’ambientazione (mi sto riferendo, ad esempio, alle due colonne che “aprono” l’albo e alle frecce che trafiggono il corpo di un “simil San Sebastiano). Che cosa volevi comunicare con questa possanza, quasi barbara, del segno?
Ritengo che il paesaggio, l’architettura e gli oggetti siano importanti tanto quanto i personaggi. Mi piace l’idea che alle volte una figura umana possa confondersi e annullarsi nell’ambiente circostante per provare a raccontarsi meglio.Il segno che ho utilizzato è possente e netto ma allo stesso tempo, lavorando con campiture di nero, sporcature e tratteggi irregolari, ha la possibilità di disfarsi con grande naturalezza. È facile quindi riuscire a passare da figure che si stagliano nette a visioni più eteree in cui i personaggi sconfinano nel paesaggio.
Un’altra cosa che ci ha particolarmente colpito, proprio a livello grafico, è l’alternanza tra il nero profondissimo e il bianco sparato: soprattutto il lucore di questo bianco ci ha ricordato il medesimo colore degli intonaci di Puglia. Insomma non è un caso che la storia sia ambientata, in un certo senso, proprio a Barletta, città dove tra l’altro sei nato?
Gran parte dello studio di una vignetta riguarda la forma delle ombre e cosa tali ombre vadano a cancellare o sottolineare. A fronte di campiture così nette e profonde esiste una fonte di luce altrettanto forte e prepotente. Il modo in cui la luce lavora sul paesaggio della mia città natale, Barletta, mi ha formato: una luce che non ho ritrovato in altre città. Quando ad agosto sono a casa mi piace pensare a Ferretti e al suo salmodiare: “chiudi un po’ la finestra-mezzogiorno in penombra-sfondo bianco e pulito-sfondo bianco e pulito”.
Due attese è, prima di tutto, una storia di mancanze e di “lutti dentro altri lutti”: dove hai trovato lo spunto?
Nella mia genealogia. Qualcuno direbbe: un tesoro, un tranello.
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Così come il tratto lo abbiamo definito, in senso positivo, “barbarico”, anche i dialoghi sono ridotti all’osso: non ti piace proprio il barocco vero?
Non proprio: mi piace un disegno, una scrittura e una musica che siano asciutti e netti ma non per questo poco stratificati.
Quali sono i fumettisti che più ammiri? E quanto pensi ti abbiano potuto influenzare nella realizzazione di Due attese?
Sono cresciuto con Druillet, Nihei, Miller e poi ho conosciuto gli argentini e mi sono ritrovato in accademia con Andrea Bruno. In realtà, durante Due attese ho letto molto Don Rosa- che amo particolarmente e che, fra le altre cose, invidio per la complessità delle immagini e la bellezza delle architetture – e Micheluzzi.
La vicenda del tuo albo lega più generazioni di persone unite dal lutto della guerra: si può leggere anche in chiave “pacifista” la tua storia?
L’ho scritta pensando alla guerra. Quando ero piccolo la mia bisnonna mi parlava del secondo conflitto mondiale, la sua badante di come era fuggita dalla guerra in Kosovo e il calendario segnava l’11 settembre 2001. Nello scrivere Due attese ho ripensato spesso al clima che si ricreava nel cucinino a gas in una strada di Barletta, denso di storie cruenti e affascinanti per un bambino di otto anni. Bastava poco e sarebbe scoppiato tutto. Se la morte, la bugia o una verità incerta possono essere fonte di serenità, allora direi che questa è la pace che si ritrova in Due attese.
Senza anticipare troppo ai nostri lettori non possiamo non chiederti quest’ultima cosa in conclusione dell’intervista: da dove ti è venuta l’idea del telefono che registra ogni chiamata attraverso un pratico “scontrino”? L’abbiamo trovata assolutamente geniale e davvero molto particolare!
Ho pensato fosse comodo. L’ho voluto accennare in un sola vignetta, dandogli poca importanza e facendolo passare per una cosa così ovvia da non aver bisogno di spiegazioni e reiterazioni. A volte sono queste cose lasciate a fermentare in un angolo che durante il fumetto aprono dei piccoli mondi.
Due attese di Maurizio Lacavalla
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