Kate Beaton con Ducks realizza un capolavoro assoluto, da far leggere nelle scuole di scrittura, nei posti di lavoro e in metropolitana.
Se c’è una cosa che fa la letteratura, la grande letteratura è quello di farti vivere una vita non tua ed è, esattamente, quello che fa Ducks di Kate Beaton, un gigantesco volume, in senso di valore editoriale, culturale e sociale, pubblicato in una bella edizione da Bao Publishing. Come alle volte solo la grande letteratura sa fare, la trama del libro può essere riassunto in poche righe, talmente scarne da poter riflettere una qualsiasi bio di qualsiasi persona poco più che ventenne gettata nel mondo là fuori. C’è una ragazza canadese, che dopo aver studiato quello che le piace e che sa di sapere fare bene, è costretta a causa dei debiti contratti durante il percorso di laurea, a mettersi a lavorare, ma a lavorare sul serio. E cosa può fare una giovane ragazza senza alcuna/troppa esperienza in Canada? Beh ha poche alternative e tra quelle più remunerative, senza ombra dubbio, c’è un impiego in una delle tante industrie che lavorano nel campo delle sabbie bituminose dell’ovest del Paese. Ecco che con un stile essenziale ma precisissimo, l’autrice ci porta con sé in questo non-luogo in termini assoluti, distese infinite “di freddo” e di nulla, sabbia “sporcata” dal petrolio che viene estratto a seguito di pesanti lavorazioni. Una terra di fatica e dolore ma anche di profondissima solitudine: infatti la giovane ragazza si trova sola, lontana dalla famiglia e dagli amici, dagli affetti e dai posti conosciuti. E per di più si trova da sola, in mezzo al nulla, “da ragazza“, quindi, mai termine fu più giusto, oggetto del desiderio di tutta la torma di “maschi” che la circondano.
Il freddo, e stiamo parlando di un freddo veramente artico, penetra nelle ossa e nelle viscere della nostra protagonista che, praticamente in ogni dove, è costantemente osservata, seguita e desiderata, anche in maniera molto spinta, verbale e non. Ora, sincero, ho provato a immedesimarmi in lei e mi sono detto, dopo un iniziale “beh, volendo, chissà quante occasioni”, mi sono sentito una bestia: il punto è che lei non vuole o che anche se volesse non sarebbe così. E proprio di relazioni, affetti e consenso, immersi come si è in questa insondabile solitudine alienata, si finirà a parlare di questo libro. Un libro dominato dai toni blu scuro e grigi che rappresentano bene il cuore della protagonista che quasi come in un sogno/desiderio ricorrente si immagina di essere, ancora una volta, con i piedi tra la sabbia, non bituminosa ma questa volta del mare, di casa sua. Anche gli accenti, delle varie parti del Canada, ogni tanto, le fanno ricordare casa ma poi, come una mannaia gelida, ecco di nuovo calare il lavoro, le piccole/ grandi faccende che la impegnano per molte ore ogni giorno e i soldi che non bastano mai, sentendosi sempre sola. Il libro, non ve lo nego, è doloroso, perché è soprattutto nel carotaggio emotivo che fa un lavoro egregio: non c’è nessun patetismo e pietismo nei confronti della protagonista ma solo una, più o meno, fredda disamina degli eventi. Essere una giovane ragazza in quel posto, ma forse in un po’ tutti i posti, porta con sé la necessità di essere più svegli, all’erta e attenti degli altri. Questa presa di coscienza, magari banale per tante lettrici che sono arrivate fin qui, per me è stata una botta d’aria fredda in viso e quanto succederà poi nel prosieguo del libro pure peggio.
Non bisogna scordare, e Bricks non lo dimentica mai, come in quei due anni di lavoro la protagonista è impiegata in un’azienda che avvelena la Terra, nel letterale senso del termine. Un’azienda dal forte, anzi fortissimo ambientale, che distrugge un immobile paesaggio millenario e lo rende un inferno su questo pianeta. C’è la delicatezza della realtà a muovere la mano di Kate Beaton che realizza un vero e proprio capolavoro contemporaneo: tra le sabbie bituminose dell’Alberta, in fondo, si trova un pezzo del nostro stare al mondo oggi: solitario, nocivo e malato. E fa male, dannatamente male prenderne coscienza.