L’arte di Tsutomu Takahashi esplode in Black-Box.
I sei volumi di Black-Box di Tsutomu Takahashi andrebbero esposti in un ideale museo delle forme narrative dell’arte contemporanea per almeno tre ragioni. La prima, abbastanza lampante, è il tratto unico del mangaka che dopo averci deliziato con opere quali Sidooh, Tetsuwan Girl e Neun (ancora in corsa) con Black Box si cimenta in un racconto di pugilato che richiama, da un lato, le atmosfere disperate e di povertà estrema di Ashita no Joe, nientemeno, e dall’altro filtra con il manga contemporaneo, in un’unione di grandissimo gusto. Poi c’è il ritmo di un racconto che, nonostante a mio avviso “avrebbe meritato” almeno altri quattro volumi per soddisfare la voglia di saperne di più su tutti i personaggi coinvolti in scena, si delinea come perfetto: le fasi di combattimento, dei match sul ring, sono brutali e violentissime, fatte di sudore, sangue e colpi più o meno proibiti e poi le fasi della vita di tutti sono scandite dalle “mattate” di Ryoga Ishida, uno dei membri della cosiddetta “murder family”, la famiglia di assassini che vive la sua vita con un unico obiettivo, primeggiare nel mondo della boxe per “vincere” la scommessa con suo padre e dare giusto onore alla vita di suo fratello. Infine, il terzo motivo è quello che Black Box riesce, in un formato tutto sommato molto contenuto, ad ergersi e staccarsi dalla qualità media dei manga contemporanei, per ergersi allo status di vera e propria opera.
All’interno infatti del cofanetto troverete una storia di vita, morte e (auto)distruzione dai toni tragici e oscuri, che vi terrà avvinghiati alle sue pagine in modo violento e brutale, ma anche mai forzato o forzoso, piuttosto un’attrazione inesorabile verso il gorgo di un uomo dalla vita “già segnata”, almeno all’apparenza che non ha alcun modo di riscatto alcuno ma che, al di là di tutto e di tutti, vuole perseguire il proprio obiettivo: diventare il campione del mondo di pugilato. Per questo rinuncia a tutto, a una vita normale per prima cosa, ma poi anche a aspetti più particolari, come ad assaggiare un piatto che non sia “straccetti di pollo con verdure grigliate” oppure a conoscere/andare a letto con una donna. Tutto ciò che è distraente dalla boxe per lui è superfluo e quindi da eradicare, con forza, dalla sua vita: egli infatti, proprio per il marchio di quella “colpa primigenia” inferta al fratello non ha tempo, non ha mai avuto tempo. Egli deve solo e soltanto perseguire il sogno di suo padre: vederlo campione di boxe, un giorno.
Ecco perché il manga pubblicato da Planet Manga non è, per nessuna ragione al mondo, la classica storia di riscatto, attraverso lo sport, di un underdog ma è, a conti fatti, una storia di depravazione e ossessione di un ragazzo che non vive se non per un solo obiettivo e per inseguirlo, a poco a poco, si autodistrugge. La vita del nostro protagonista, infatti, non è vita ma una, più o meno, lenta agonia verso un baratro senza fondo. Ecco perché, come avrà modo di dire un allenatore “sui generis” Ryoga Ishida è il pugile perfetto, perché egli è senza freni, senza remore e senza nulla da perdere dato che, in fondo, ha già perso tutto. La nobile arte della boxe, quindi, il palcoscenico ideale per uno come lui, uno sport che, esattamente come il blues, è fatto di sudore, lacrime e sangue: si è da soli sul ring, soli contro il proprio avversario, carichi delle paure, delle ferite e degli orrori di una vita. E chi come Ryoga è il “pugile assassino” sa, esattamente, cosa si prova a portarsi dietro questo bagaglio emotivo. Black-Box per tali ragioni è un manga da leggere e rileggere, perché si può assistere non soltanto all’arte di un grande mangaka, ma anche a una grande storia di “orrore sportivo” in cui la rivalità nei confronti di un altro atleta diventa lo specchio più sincero nei confronti dei rispettivi sbagli, non detti e rimozioni psichice.