La notizia ve la ricordate un po’ tutti. Lo scorso 19 giugno, durante la prima prova dell’esame di Maturità, sul sito del Ministero dell’Istruzione apparve questo sciagurato titolo: “Traccie prove scritte“. Ovviamente l’epic-fail del MIUR ha sollevato in brevissimo tempo un gran polverone. Motivo in più per comprendere meglio quanto il linguaggio sulla rete sia un argomento di fondamentale importanza per la nostra società. A questo proposito, recentemente, è uscito per Franco Cesati Editori un interessante libro, Social-linguistica. Italiano e italiani da social network , in cui si analizza come comportarsi, a livello linguistico e non solo, sui social network. Abbiamo raggiunto durante una conferenza in un liceo di Lecce l’autrice, Vera Gheno, sociolinguistica, traduttrice dall’ungherese e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. Con lei abbiamo intrapreso un viaggio nei meandri dei peggiori obbrobri linguistici visti sui social e sulle ultime tendenze riscontrabili sull’internet. Alla fine abbiamo strappato anche un paio di consigli davvero ma davvero utili.
All’inizio del tuo libro citi una ricerca che ci ha lasciato abbastanza stupiti: in Italia nel 2016 ci sono più SIM del telefono che abitanti. Eppure, ancora oggi, gli italiani non sono così avvezzi all’uso di internet: come mai questa disparità da parte di un popolo costantemente attaccato allo smartphone eppure non amante di consultare internet?
Beh va ricordato che i dati che ho utilizzato nel mio libro sono stati presi dall’annuale ricerca condotta da We Are Social, un’agenzia che ogni anno fa un mega power-point con i dati che interessano tutto il mondo e quindi anche l’Italia. Detto questo non mi sembra una cosa così strana il fatto che gli italiani siano persone che amano parlare, fare pettegolezzi e mettersi a telefonare in giro. Trovo sia qualcosa di intimamente legato a noi a livello strutturale e antropologico. Viceversa per consultare internet, anche per le ricerche più banali e amene, occorrono delle competenze più o meno precise che, almeno nel nostro Paese, ancora non tutti hanno. C’è anche da dire che gli standard di connessione nella Penisola è abbastanza basso per tante ragioni, tra cui la conformazione morfologica e le linee telefoniche preesistenti le quali, grosso modo, è dai tempi di Meucci che non sono cambite. Paradossalmente, Paesi “nuovi” in questo senso come l’Estonia, dove non vi era o quasi linea telefonica, sono passate con rapidità alla banda larga. Da noi ci vorrà ancora del tempo.
Ad inizio di Social-linguistica fai riferimento al cosiddetto linguaggio neostandard, ovvero un tipo di linguaggio buono per tutte le occasioni: di che cosa si tratta?
L’italiano ha avuto una storia molto particolare, direi unica. Fino all’altro ieri, ovvero gli anni Sessanta, era parlato da una minoranza di persone. La maggioranza preferiva comunicare in dialetto, l’unica vera lingua padroneggiata. C’è voluta la televisione per unirci a livello linguistico. Ma oltre a questo l’italiano inteso a livello proprio linguistico, è una lingua artificiale, costruita lungo i secoli a partire da Bembo e per finire con Manzoni e da sempre si è sentita una certa differenza, se non distanza, tra la lingua insegnata a scuola e quella usata tutti i giorni. Ecco il neostandard (termine coniato dal linguista Gaetano Berruto) è, possiamo dire, l’italiano parlato dall’italiano medio, ovvero una lingua semplificata ma che viene veramente usata. Rispetto a quella che studiamo a scuola, nel neostandard c’è la totale scomparsa di pronomi come egli, sostituito con lui, si usano meno tempi e modi verbali e le congiunzioni giacché e affinché totalmente dimenticate. Non è un indebolimento dell’italiano ma la normale evoluzione della lingua derivata dalla pressione dei parlanti.
Quindi in questa lingua media sono comprese anche le parole straniere, in special modo quelle inglesi che ormai sempre più vengono utilizzate dai parlanti?
Ovviamente ma si può dire di più in tal senso. L’italiano è una lingua che accoglie molto le parole straniere, basta pensare alla nostra storia, fatta di continue invasioni e conquiste di popoli che venivano da lontano. Le derivazioni arabe di tante nostre parole comuni stanno lì a confermarlo. Tuttavia bisogna fare chiarezza: non è sbagliato usare una parola inglese al posto di una italiana ma è sbagliato farlo per essere fighi! Se io dico software va benissimo, è giusto e nessuno mi può dire nulla. Ma se invece di missione dico mission ecco che voglio fare quello al passo con i tempi, fare la figura del, fintamente, più colto degli altri e la cosa è un pochetto ridicola. L’italiano ha tantissimi vocaboli e soluzioni per esprimere una moltitudine di concetti. Usiamo per ciò le parole giuste al momento giusto per indicare la cosa giusta!
Invece il punto e virgola è da considerarsi spacciato?
Il punto e virgola è un segno di interpunzione che mi sta particolarmente simpatico e che trovo naturale da usare. Però non è così semplice da spiegare dato che si dovrebbe scegliere di utilizzare per indicare una pausa un po’ più lunga di una virgola e un po’ meno di quella indicata dal punto. Sì, in effetti è una regola che è un po’ troppo sfumata. A conti fatti, un po’ a malincuore, dato che i social paiono essere il regno della velocità perenne, questa “pausa e mezzo” mi sa che è destinata a tramontare.
E i dialetti? C’è stato un momento in cui sembravano spariti eppure sono ancora vivi e combattono insieme a noi, perfino su Twitter o Facebook…
C’è stato un tempo, l’epoca dei nostri genitori o nonni, in cui a scuola si imponeva l’assoluta censura del dialetto: il dialetto non si doveva usare perché era una lingua rozza. Poi, a partire dagli anni Ottanta, quando finalmente gli italiani sono diventati italofoni a tutti gli effetti c’è stata una lenta e graduale riscoperta. Ora è vero che si usa sui social, addirittura scrivendolo, ma lo si fa con scopi ben specifici. Ad esempio la proliferazione di gruppi come “Sei di Roma se…” o “Sei di Pontremoli se..” è una sorta di dichiarazione dell’orgoglio delle proprie origine, di presupposte e non meglio identificate caratteristiche che uno avrebbe nascendo a Varese e non, ad esempio, a Palinuro. Oltre a questo sono passate nel linguaggio comune dei social dei regionalismi come il “daje, daje”, per indicare varie cose. Ecco possiamo dire che il recupero del dialetto è circoscrivibile a due spinte, uguali e opposte; rivalutazione del local w affermazione di qualche moda global di internet.
Una parte molto divertente del tuo libro è quella in cui descrivi i “tipini da social”, ovvero degli utenti standard che ormai affollano internet. Ci diresti quali sono quelli che proprio non sopporti?
Oh a questa domanda sono felice di rispondere! Amo, per così dire, particolarmente i salutisti, cioè quelli che nel bel mezzo di una discussione prendono e salutano, se ne escono con i vari “Ok ciao, arrivederci, ossequi etc.”. Nella vita reale noi non saluteremmo chi ci ha fatto andare su tutte le furie con un’opinione sbagliata! Trovo sia anche un modo violento per significare di non sapere più come argomentare. Poi sono molto attenta, anche per il lavoro in Crusca, ai benaltristi, ovvero quelli che dicono “voi state qui a parlare di lingua quando sono ben altre le cose importanti”: ecco per loro c’è sempre un ben altro, non meglio specificato, più urgente dell’argomento trattato. E infine come non citare i lapidatori lapidari, quelli che hanno la verità in tasca, gli unici e soli possessori dell’assoluto discernimento su ogni cosa. Ecco costoro mi fanno anche un po’ paura!
Molti comici, negli ultimi tempi, si scagliano spesso contro i meme, rei di non essere veri e propri contenuti umoristici ma sorta di vera e propria tomba della comicità. Tu come la vedi anche e soprattutto a livello linguistico?
In Crusca è capitato a volte di utilizzarli (come quello che vedete sopra, ndr) ma anche in questo caso bisogna fare dei distinguo. Ci sono dei meme incredibili, molto divertenti e che amo rivedere anche a distanza di tempo. Altri invece lasciano il tempo che trovano o sono addirittura di cattivo, cattivissimo gusto. C’è varietà ecco ma affermazioni lapidarie come “questo è la tomba di qualcosa” non mi piacciono proprio.
Quali i consigli che ti senti di dare ai nostri lettori? O gli errori che più comunemente noti nell’uso dei social?
Di veri e propri errori non si può parlare perché non c’è ancora la codificazione di un linguaggio ufficiale e penso che non ci sarà mai. Quello che noto è una noncuranza di ciò che si pubblica, una specie di trascuratezza nel dare peso alle proprie affermazioni o condivisioni sui social. Questo tra l’altro accomuna le nuove come le vecchie generazioni. Ecco prima di scrivere un commento o uno status o un tweet mi piace pensare alla frase scrivi come se tua madre ti stesse guardando; ecco questo trovo che sia importante per un uso consapevole della rete. Prendersi tempo, riflettere un secondo in più non è sbagliato perché internet non è il posto della velocità come unica legge. La rete è un posto vasto con i suoi tempi: è ora che ci prendiamo anche noi i nostri.