Geek
di Mattia Nesto 8 Novembre 2019

Una notte (di passione) passata su Death Stranding

È uscito Death Stranding, il nuovo, attesissimo videogioco di Hideo Kojima

Quando le prime immagini del gioco iniziano ad apparire sulla nostra console è da pochi secondi passata la mezzanotte. Nel cielo, un cielo nero di tempesta, i lampi si rincorrono e dall’alto dell’ottavo piano di un palazzone di Milano Sud il mondo intero sembra aver perso la consistenza dei propri contorni: tutto è liquido, tutto è mischiato, tutto è connesso. Sulla parola connesso, come un perno, “girerà” l’intero pezzo sulle prime, febbricitanti ed emozionati, cinque ore esatto di gameplay di Death Stranding, il nuovo gioco partorito dalla fervida mente di Hideo Kojima (Metal Gear Solid) e dei suoi studios, e che ci ha, come avrete intuito, tenuto incollati allo schermo fino a pochi minuti fa.

Death Stranding inizia quasi in modo biblico, con l’incipit ricordato qui e che starebbe benissimo sia in esordio del libro de L’Apocalisse di Giovanni come di un saggio di un qualche fisico sperimentale o cinese. E invece ci tratta di un videogioco. Già perché nelle nostre cinque ore precise di esplorazione, contrariamente a quanto si legge in tante, troppe recensioni in giro per il globo, di gameplay, di “gioco” vero e proprio in Death Stranding ne abbiamo trovato a quintali. Ma nel vero senso della parola.

Innanzi tutto, esattamente come si può fare in The Legend of Zelda: Breath of the Wild per Nintendo Switch, ogni parte della mappa di gioco può essere raggiunta dal nostro Sam Porter Bridges, il “corriere” protagonista dell’avventura. Sam, interpretato da Norman Reedus, già star di The Walking Dead, è infatti l’uomo delle consegne, ovvero colui che, in un mondo ormai ridotto letteralmente a brandelli da una misteriosa quanto inquietante, “nuova grande esplosione” ha il compito di riconnettere i luoghi e le persone. Praticamente sin dai primissimi minuti iniziali di gioco, Kojima ci presenta la “morale” del suo titolo. Come si può leggere infatti nell’introduzione il “gettare ponti” tra sé e gli altri è fondamentale in questo gioco. “Il bastone è stato il primo strumento creato dall’umanità per mettere una distanza tra sé e le cose minacciose, per proteggersi. Il secondo strumento creato dall’umanità è stato la corda. Una corda è usata per legare cose importanti e tenerle vicine”. Kojima cita una delle frasi più celebri dello scrittore Kōbō Abe per presentarci la chiave filosofica del suo gioco.

Ok bene. Quindi impersoniamo un corriere che deve consegnare dei pacchi, mette in relazione le persone, usa la corda insomma: ma in tutto questo il gameplay? Pronti, ve ne parliamo subito. Come abbiamo ricordato prima la possibilità di raggiungere la mappa di gioco (a parte i suoi bordi più estremi, che presentavo livelli di “corruzione dell’aria” troppo elevata anche per Sam) è praticamente illimitata a condizione però che si presti sempre attenzione alla salute e alla stamina del protagonista. Infatti Sam, nonostante sia dotato di base di una buona agilità che lo fa scalare rocce e piccole pendenza con una certa facilità, non è “lo stambecco giocoso” che è Link nell’ultimo Zelda.

No, Sam in fondo è un essere umano, un essere umano come noi che, se per esempio attraversa un fiume con una corrente piuttosto rapida, potrebbe mettere il piede in fallo, scivolare su una roccia bagnata e finire con il far cascare i propri pacchi, danneggiandoli. Ecco, avete capito. Death Stranding gioca tutto sul ruolo del peso e della fisica: ogni oggetto che Sam porterà con sé non solo sarà riprodotto sotto forma di modello 3d visibile su di sé, ma avrà anche un peso specifico che andrà a influire sull’equilibrio generale del personaggio. Personaggio che, come vi abbiamo detto prima, almeno nelle prime ore di gioco è un essere umano come tutti noi.

Così, con il “fardello dell’uomo occidentale” sulle spalle, ci muoveremo in un open world ispirato all’Islanda, ovvero dove si alternano paesaggi ricolmi di rocce aguzze spesso e volentieri sferzate non solo dal vento ma anche da una pioggia costante. Ah già la pioggia. La pioggia, ovviamente trattandosi di un gioco di Kojima, non è “solo pioggia”. Infatti è “cronopioggia”, cioè un particolare tipo di precipitazione per cui basta che vi caschi una sola goccia sui capelli per farveli diventare bianchi: infatti la cronopioggia, come si può intuire, influisce direttamente sul normale fluire del tempo, accelerandolo a dismisura. Ecco quindi che si potranno osservare, quando piove, intere distese di sterpaglie, morire e rinascere senza soluzione di continuità e gli stormi di corvi cadere a frotte colpiti dal pugno del tempo.

Ma quindi non ci sono nemici, a parte l’ambiente atmosferico, le asperità del terreno e i lunghi percorsi da intraprendere in Death Stranding? O no, i nemici ci sono eccome e, nonostante un settaggio della difficoltà tarato verso il basso (il nostro consiglio è di iniziare l’avventura, giusto per avere qualche brivido in più, sul livello di difficoltà “difficile” altrimenti è una gita aziendale), anche molto ispirati a livello di design e di approcci (anche se non altrettanto, purtroppo, dal punto di vista del combat-system, dell’Intelligenza Artificiale e dei pattern di attacco). Oltre infatti ad altri corrieri che vi vorranno rubare il carico, ci saranno le BT o CA, ovvero le Creature Arenate. Infatti il grande scoppio dell’inizio, non ha solo rimescolato le carte del fluire del tempo ma anche, proprio come la pioggia di Milano che confondeva i contorni delle cose, ha in pratica fuso il piano di esistenza dei vivi con quello dei morti. E i morti tornano così “in vita”, partendo dalle spiagge nelle vesti di creature arenate. Misteriose entità, non visibili ad occhio nudo, che si “cibano” dei vivi e che hanno come missione quelli di trascinarli nella dimensione infera.

Come fare a sfuggirgli? Per poter sopravvivere si deve tentare l’impossibile, ovvero connettersi con la dimensione dei vivi per mezzo, perdonate il gioco di parole, della vita stessa. Stiamo parlando dei cosiddetti Bridge-Baby, infanti di pochi mesi che, letteralmente, vengono collegati, attraverso un allacciamento sullo sterno dei vari corrieri, all’Odradek un macchinario che non solo ci consente di conoscere e analizzare il mondo circostante ma anche e soprattutto di individuare queste creature invisibili all’occhio umano. Una volta individuati, attraverso il tasto quadrato, potremo trattenere il respiro. Così facendo le creature non si accorgeranno di noi e ci lasceranno in pace, ma il “gioco” dovrà essere condotto in punta di controller: infatti trattenere il respiro consumerà stamina e senza stamina saremo in balia di chiunque. Senza energia Sam non si potrà muovere e senza possibilità di muoversi si diventa carne da macello. Certo magari, quando stai scappando da qualche nemico e ti trovi davanti un burrone potresti trovare una corda, per calarti nella gola e salvarti la pellaccia. Ma il ritrovamento o meno di qualcosa di utile sarà affidata al caso o, ancora meglio, alla buona volontà degli altri giocatori che in una logica di co-op asincrocono (ovvero i giocatori giocano connessi tra di loro ma, materialmente, non si vedono mai) potrebbero darsi una mano a vicenda. Con il beneplacito di Kojima-San.

Ma la raffinatezza del gameplay di Death Stranding non finisce qui. Tralasciando le opzioni di micro-management del proprio inventario, che arriva a punte di “deliziosa follia” e a tutto l’armamentario di oggetti e gadget che Sam potrà utilizzare per i suoi spostamenti (da veicoli a scale, passando per pioli, stivali e occhiali da sole!) si potrà scegliere se prendere quel dato pacco con la mano destra o sinistra, oppure impilarlo sulla schiena assieme agli altri. Quando si camminerà potremo avere la possibilità di tenere salde le nostre mani sulle cinghie dello zaino oppure reggerci con una mano su una parere rocciosa. Una questione di equilibrio insomma regge il mondo di Death Stranding. Prima la corda, poi il tempo, quindi il respiro, il rapporto tra vita e morte e, infine, la connessione tra gli esseri dotati di ragione, gli homini ludens (termine preso pari pari dal solenne saggio di Huizinga che vi consigliamo di leggere).  Un videogioco filosofico, ma anche profondamente politico. E feroce, tanto feroce, oltre che dolce e disperato.

 

E non abbiamo neppure passato il prologo. Ma ci siamo già emozionato una trentina di volte, specie con il sound-design assolutamente da ricordare e con le ost, le canzoni che compongono la colonna del gioco, che “partono” in momenti topici del nostro viaggio.

Dopo cinque ore, da quando gli ultimi lavoratori escono dalla metro a quando i primi panettieri alzano le clèr nonostante la pioggia, ci siamo letteralmente persi nel mondo di Death Stranding. E non abbiamo neppure fatto in tempo di dirvi quanto sia fottutamente incredibile il motore grafico di gioco, quel Decima Engine sviluppato dai ragazzi di Guerrilla per Horizon Zero Dawn e poi migliorato e perfezionato dallo studio di Kojima. Vedere Léa Seydoux interpretare Fragile con quel motore di gioco ci ha fatto “lacrimare gli occhi di bellezza”. Ecco perché oggi e per molti giorni ancora saremo ancora più intontiti al lavoro: abbiamo delle consegne da fare nel mondo di Death Stranding.

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