C’è una grande novità nel mondo del fotogiornalismo: Reuters, un’agenzia di stampa britannica, ha cambiato le regole. Ha chiesto ai suoi collaboratori freelance di non inviare più foto scattate in RAW (o file CR2) ma solo in JPG. Per capirci: i file RAW (con RAW che in inglese significa ‘crudo’, ‘grezzo’, ‘non lavorato’) raccolgono dati dal sensore al momento dello scatto a cui non è stata applicata nessuna manipolazione da parte della macchina fotografica, cosa che invece succede con i file JPG. Questa caratteristica permette di sottoporre i file RAW a post-produzione senza perdere in qualità, ma li rende anche estremamente pesanti. I file JPG invece, immaginandoli come foto già stampate invece che come negativi di una pellicola (i RAW), sono sicuramente più leggeri ma meno ritoccabili, quindi ci vuole più coscienza da parte del fotografo al momento dello scatto: per esempio, sarà importante avere già un corretto bilanciamento del bianco. Questo chiaramente significa più fatica e concentrazione per i fotografi durante il lavoro, ma per l’agenzia significa una maggiore certezza di ricevere immagini più “veritiere” e di riceverle in un tempo più breve, di poterle quindi vendere con più prontezza.
Il ritocco in post-produzione di immagini fotogiornalistiche non è assolutamente un problema nuovo e infrequente. Solo nell’edizione del 2015 del World Press Photo, sono state squalificate circa il 20% delle fotografie finaliste per eccessiva manipolazione subita in post-produzione. Ma la post-produzione non è l’unica questione aperta: a Giovanni Troilo, ad esempio, è stato revocato il premio dagli organizzatori del WPP 2015 a causa di una didascalia “sbagliata”: le foto si dicevano scattate nella cittadina belga di Charleroi mentre si è scoperto furono ambientate a Molenbeek, Bruxelles.
Perché un fotogiornalista, che si è scelto il compito di registrare e raccontare storie vere nel modo più equilibrato ed imparziale possibile, vuole modificare queste storie e renderle più piacevoli dal punto di vista estetico? Stiamo valutando gli aspetti “sbagliati” della fotografia di reportage? Nasce da lontano appunto, un esempio storico è il miliziano di Robert Capa (Falling Soldier), fotografato morente il 5 settembre 1936 durante la guerra civile spagnola, che ancora oggi fa discutere: c’è chi sostiene sia semplicemente un soldato che cade (quindi è la didascalia che inganna), chi dice che sia una foto posata, chi la ritiene autentica. Sono più responsabili i fotoreporter o sono le riviste che chiedono fotografie più belle, più “forti”? Un altro esempio risale all’omicidio dell’ex moglie, e del fidanzato, da parte di O. J. Simpson. Quella volta sia Time che Newsweek decisero di utilizzare stessa foto, il mugshot di Simpson, come copertina. Il problema fu che Time la scurì drasticamente per aumentare l’effetto drammatico.
Qualche estremista potrebbe dire: nessuna fotografia rappresenta la realtà. Ed è vero, ogni immagine che ci arriva è stata “manipolata” dal fotografo, ha scelto lui cosa includere, cosa lasciare fuori dall’inquadratura, se aspettare il tramonto per aumentarne la drammaticità. Come scrisse Susan Sontag ne Nella grotta di Platone: “Anche quando si preoccupano soprattutto di rispecchiare la realtà, i fotografi sono comunque tormentati dai taciti imperativi del gusto e della coscienza. […] e le fotografie sono un’interpretazione del mondo.” In un altro suo saggio, L’Eroismo della Visione, la Sontag si occupa proprio della manipolazione delle fotografie (era il 1855 quando un fotografo tedesco inventò la prima tecnica per ritoccare il negativo) e scrive: “Le conseguenze della menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura, perché quelle piatte immagini, quasi sempre rettangolari, che sono le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avanzare un quadro. […] Una fotografia falsa (cioè una fotografia ritoccata o manomessa, o accompagnata da una falsa didascalia) falsifica la realtà.”
Quello che un portavoce di Reuters sottolinea è che: “Reuters Picture deve riflettere la realtà. Mentre miriamo ad una fotografia con la più alta qualità estetica, il nostro scopo non è quello di interpretare artisticamente le news”. Una presa di posizione drastica e indubbiamente controcorrente. Si abitueranno i lettori, si abitueranno le redazioni, a lasciare da parte quel “bello” che si è andati cercando? Sarà interessante valutare tra qualche mese, tra un anno, cosa è realmente cambiato da questo momento, quando Reuters ha detto basta all’eccessivo fotoritocco. Perché adesso? Forse che fondamentalmente ci stiamo stancando della pura estetica in casi in cui il “bello” è superfluo se non inutile?