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Contro il pandoro, inutile spugna burrosa senz’anima

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Pensa a una coppia, di quelle in cui uno dei due è totalmente amorfo. Zero personalità, spirito di adattamento totale: “Non c’è problema amore, a me va benissimo quello che decidi tu”. Ecco, potremmo definire quella metà della coppia “un pandoro”. Il pandoro è così: talmente incolore, inodore e insapore da doversi per forza accompagnare a qualcuno/qualcosa che gli insegni come stare al mondo.

Che sia un caffelatte in grado di trasformarlo in una spugna molliccia, il cui inzuppamento lascia dietro di sé aloni di grasso, unto e fastidio. Che sia una crema al mascarpone che lo porti al quantitativo calorico annuo consumato da un paese in via di sviluppo. Qualsiasi cosa pur di togliersi dalla vista quel giallo nemmeno-paglierino, rivitalizzato a stento dal patetico tentativo di defibrillazione di un quasi cadavere attuato con lo zucchero a velo. Cioè, parliamone: lo zucchero a velo. Mancano solo gli orsetti gommosi e poi il grado zero del gusto è al completo.

Il panettone no, è diverso. Il panettone è un pensato, sensato e calibrato. C’è l’impasto, perché non potrebbe essere altrimenti, ma non è una distesa desertica gialla smorta. Non è un paesaggio da cui ti aspetteresti di veder spuntare Matt Damon in versione astronauta sperduto. No, quello del panettone è un panorama variegato, in cui ambrate uvette si alternano a canditi multicolore. Ogni boccone è diverso dall’altro: può capitare il solo impasto, ma è rarissimo.

E il pandoro, invece? Morso #1: impasto. Morso #2: impasto. Morso #3: impasto. Sempre così, in eterno, come una maledizione mitica, interrotta solo in alcuni casi dallo zucchero a velo che ti va di traverso, facendoti tossire. E all’inizio ti dà fastidio, ma dopo un paio di colpi di tosse sei lì a ringraziare il rischio soffocamento, per il solo fatto che ti abbia dato un’emozione. Perché mangiare il pandoro è come vivere in un’infinita domenica sera nella provincia padana, con la nebbiolina che ti fa venire la malinconia e la certezza che nulla cambierà mai, che nulla saprà darti un brivido. A parte attraversare di corsa la statale. O mandare di traverso lo zucchero a velo, appunto.

Stacco su fetta di panettone: morso che addenta la crosta bruciacchiata, poi la sofficità dell’impasto, impreziosita dalla morbidezza dell’uvetta e dalla diversa consistenza del candito.
Stacco su fetta di pandoro: “dov’è la panna montata, che mi serve qualcosa per dare un senso a questa distesa di burro?”

[LEGGI Contro il panettone, l’estremo rifugio delle canaglie]

Marco Villa

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Marco Villa

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