Il prossimo 21 gennaio esce nelle sale Sempre meglio che lavorare, il primo film dei The Pills (anche loro tra gli ospiti del nostro Better Days Festival). Potrete vedere: bambini che sniffano, sparatorie con un gruppo di manager del Bangladesh nel palazzo dell’Unicredit di Milano, occupazioni scolastiche in stile Muccino; corsi ai carcerati su come utilizzare i social network e feste della Roma borghese con ragazze che non solo sono solo fighe, ma si ammazzano anche di canne; la storica maglietta dei Nofx con la scritta punkers al posto di Snickers o quella che Guybrush Threepwood di Monkey Island vince in uno dei primi livelli del gioco. Poi, citazioni di Un giorno in pretura manco fosse True Detective e Giancarlo Esposito (il Gustavo Fring di Breaking Bad) che porta Luca Vecchi in un cesso, lo minaccia di tagliargli le palle come in Fight Club, per poi farlo entrare nel più grande mercato italiano di venditori di rose e dei proprietari di negozi etnici.
È più utile raccontarlo così piuttosto che tirare le fila e delineare una trama. Se uno volesse farla facile lo potrebbe descrivere come un film di taglio generazionale su un gruppo di ragazzi che fanno i conti con l’età adulta ormai imminente e con la necessità di trovare un lavoro, ma sarebbe come dire che Le iene è semplicemente la storia di una rapina finita male perché c’era una talpa tra i rapinatori.
Per come la vedo io, i The Pills hanno preso uno dei tanti temi possibili e poi l’hanno sfruttato per fare quello che gli riesce meglio: giocare con le numerose citazioni, i cliché e le parodie in un flusso unico di un’ora e mezza. In pratica tutto quello che già c’era nelle loro pillole web ma pompato con gli steroidi e spinto al massimo fino ad ogni limite possibile e immaginabile. E non è robetta, poteva venire fuori un’accozzaglia di gag e di sketch, magari anche con tanti piccoli dettagli geniali, ma che non ti teneva attento per più di mezzora; invece il film funziona: la recitazione è ben curata, le scene sono scritte bene, in un equilibrio sempre rotondo e che non deve per forza tirare fuori anche i buoni sentimenti per dare un senso di completezza al tutto. Rimane in bilico tra il cazzaro, il cinico e il surreale trasformandosi in qualcosa di istintivamente bello, che ti lascia contento come un bambino che vede per la prima volta un incontro di wrestling.
Questo era l’obiettivo importante, crearsi un proprio linguaggio e divertirsi a giocarci attorno con naturalezza, autoironia e metanarrazione, che è un po’ quello che oggi i comici che amo di più in assoluto – da Amy Poehler fino a Luis C. K – fanno regolarmente. Tutte le possibili critiche che possiamo fare ai The Pills – in primis, indugiare troppo su questo immaginario da loser romani viziati e borghesi – rimangono sotto controllo e non stufano ancora. Hanno dimostrato di avere talento, che è diverso dal semplice saper far ridere.