L’America è la terra promessa. Ce lo ripete incessantemente la retorica dell’immaginario cinematografico e artistico dell’ultimo secolo. Vero ma con qualche eccezione. Anche se nessuno riesce ancora a rubare lo scettro degli USA in quanto a sviluppo tecnologico e capacità di abbattere alcuni tabù (il presidente di colore, la liberalizzazione delle droghe leggere, matrimoni di persone dello stesso sesso) per quanto riguarda l’immaginario artistico qualcosa si sta muovendo. Sarà che con la rete sono cadute le solite frontiere, che nella notte di Tumblr tutte le vacche sono uguali e anche chi proviene da un background diverso e lontano ha la sua occasione di notorietà.
Anzi, a volte proprio questa prospettiva del tutto originale è la marcia in più per farsi notare in un mercato apparentemente infinito e capace di ingoiare ogni cosa. Questo è quello che è successo anche a Emiliano Ponzi e Olimpia Zagnoli, due degli illustratori italiani più famosi e che hanno maggiormente hanno lavorato con l’immaginario USA attraverso una lunga serie di lavori per alcune delle rivista americane più diffuse e influenti.
New York Times, New Yorker, Newsweek sono solo alcune delle pubblicazioni che ospitano regolarmente i contributi dei due artisti italiani. Olimpia ha addirittura disegnato una serie di poster per la metropolitana di New York arrivando dunque ad occupare fisicamente lo spazio di quella che è la capitale della cultura USA. Il racconto di questi anni di lavori e collaborazioni è oggi raccolto in un libro intitolato “Una storia americana” curato da Melania Gazzotti e pubblicato da Corraini Editore che è divenuto anche una mostra all’Istituto di Cultura Italiana di New York. Un testo double face diviso equamente tra i due autori con numerose illustrazioni che offre uno sguardo originale su una nazione che è forse più abituata a decifrare gli altri paesi secondo i propri paradigmi piuttosto che offrirsi in sacrificio all’occhio dello straniero.
Ne abbiamo parlato con gli stessi Emiliano Ponzi e Olimpia Zagnoli in una intervista doppia sul mestiere dell’illustratore ai tempi di internet, l’utilità o meno delle “scuole di creatività” e la supposta superiorità della pizza americana su quella italiana…
Entrambi siete nati a Reggio Emilia. Cosa c’è nell’acqua di questa città che favorisce gli illustratori?
EP: Non so ma qualcosa ci dovrà pur essere.
OZ: Lo strutto, probabilmente.
Quanto sono importanti gli stereotipi nel vostro lavoro: prendere elementi tipici di un paese e di una cultura da rielaborare, citare, omaggiare, stravolgere?
EP: Direi fondamentali. Si parte proprio da quelli, da una loro esasperazione che li trasforma in icone. L’aspetto più importante è la capacità di non riportare gli stereotipi esattamente come li sono ma di cucirgli addosso un valore aggiunto che è poi l’elemento distintivo di una poetica.
OZ: Nella comunicazione i cliché visivi sono sempre molto utili come punto di partenza, ma è nostro compito distaccarcene e provare a scomporli e talvolta capovolgerli.
Spesso si dubita o addirittura ironizza sull’utilità delle “scuole di creatività” eppure vedo che entrambi avete fatto lo IED. Un caso?
EP: Credo sia abbastanza un caso, all’epoca era praticamente l’unica scuola con un’offerta formativa completa in illustrazione. Sicuramente è stata un’esperienza utile che mi ha fatto scoprire quante declinazioni esistessero di quel tipo di lavoro. I dubbi sulle scuole di questo genere siano relativi al fatto che, in un certo senso, la creatività non si insegna. Si possono apprendere la tecnica e le sane abitudini dai maestri ma l’intuizione e il modo i cui diventa progetto è qualcosa di molto personale.
OZ: All’epoca avevo scelto lo IED perché era l’unica scuola che proponeva un corso di illustrazione completo. L’ho frequentato per tre anni con grandi aspettative che sono state ampiamente deluse. A prescindere da questo, credo che qualunque scuola prepari solo fino ad un certo punto. Il lavoro vero comincia quando la scuola finisce.
Una delle fonti di ispirazioni per i lavori raccolti in questo libro è Fortunato Depero. Artista e pubblicitario. Quanto le due cose sono scisse oggi? E voi vi sentite più spesso artisti o pubblicitari?
EP: Buona domanda, non saprei dare una risposta univoca. Dipende tutto dal temperamento della persona. Solitamente sono percorsi molto diversi che hanno alcuni punti di contatto. Chi vuole essere artista (intendo da galleria, museo, fiere…) passa per strade non lineari e molto dipendenti dal come riesce a “vendersi”, come veicola il proprio operato e di chi si circonda. Credo saremo tutti d’accordo che l’arte contemporanea è ormai figlia di dinamiche altre rispetto alla qualità dell’opera in sé. D’altro canto, il lavoro di un pubblicitario (o chi per lui) è meno soggetto a fraintendimenti personalistici perché finalizzato alla creazione di un prodotto commerciale che “funzioni”. Paradossalmente potrei fare il mio lavoro vivendo ritirato su di un ermo colle senza mai conoscere ed incontrare le persone con cui collaboro. Per chi fa l’artista tout court è mediamente molto più complesso privarsi dell’altro. Detto questo, mi sento talvolta artista e talvolta più indirizzato verso il mercato di consumo.
OZ: Credo che in questo momento storico la linea di distinzione fra arte applicata e arte arte sia sempre più sottile. Nel mio caso, mi preoccupo più di pensare, fare e comunicare piuttosto che sottostare alle regole di una o l’altra categoria.
Un altro nome che è citato come vostro riferimento nell’introduzione del libro è quello di John Alcorn che dall’America è arrivato in Italia finendo a lavorare con Federico Fellini in Amarcord realizzandone i titoli di testa. Voi per quale grande regista americano vorreste fare i titoli di testa?
EP: Fargo dei fratelli Coen
OZ: John Waters ♥
Cosa vorreste rubare dello stile e tecnica dell’altro?
EP: Ad Olimpia vorrei rubare il suo impatto cromatico.
OZ: La precisione, la prospettiva e l’abilità di creare atmosfera con le luci.
Spesso si parla di Milano come un centro sempre più importante dell’illustrazione mondiale, come vi spiegate questa concentrazione?
EP: Milano è diventata una perla in tante declinazioni del design, dalla moda, agli interni, alla fotografia. Questo è il grande momento dell’illustrazione. Forse siamo generazionalmente pronti a raccogliere la tradizione di tutta l’arte di cui ci siamo sempre riempiti la bocca all’estero. Siamo inoltre molto più fluidi, pronti ad esportare e motivati ad emergere.
OZ: Penso che Milano sia il fulcro creativo verso il quale convergano tutti coloro che si occupano di comunicazione in questo paese. Ciò non accade solo per via del fatto che i principali gruppi editoriali e agenzie si trovino qui, ma anche perché Milano ha da sempre ospitato personalità che hanno lasciato un’eredità artistica fondamentale per chiunque lavori in questo settore. Gli illustratori costituiscono solo un piccolo frammento di un quadro molto più grande fatto di incredibili architetti, artisti, designer, scrittori, stilisti, fotografi. E poi non dobbiamo dimenticare che il più grande illustratore di tutti i tempi, Saul Steinberg, si è formato proprio qui.
Più in generale cosa pensate della popolarità dell’illustrazione in un tempo come quello dei social network dove a dominare dovrebbe essere la parola scritta o la fotografia
EP: La facilità di creare un certo tipo di illustrazione negli ultimi anni (più di matrice grafica che di disegno) ha sicuramente velocizzato la diffusione, esattamente come è successo circa 15 anni fa con la fotografia digitale. Riguardo il fascino che esercita mi permetto di dire che l’illustrazione (assieme al design di prodotto) forse l’unico campo in cui si genera qualcosa dal nulla, e intendo letteralmente da un foglio bianco dove non ci sono frasi da comporre oppure paesaggi da ritrarre ma linguaggio e contenuto sono totalmente inediti. E’ l’alfabeto ad essere costruito in maniera unica, il codice visivo di ognuno di noi.
OZ: Credo che nell’epoca dei social network sia proprio l’immagine a dominare sulle parole. L’illustrazione, con il suo potere comunicativo e la sua capacità di piegare i confini della realtà a suo favore, è certamente il mezzo più elastico e contemporaneo che si possa immaginare.
Ma poi è vero che la pizza a New York, come dice Olimpia nella sua introduzione nel libro, è più buona di quella di Milano?
EP: Non mangio molta pizza ma una sera di disperazione mi è capitato di addentare un trancio di “one dollar pizza” sull’8th ave ed era molto buona.
OZ: Dipende da dove la si mangia, naturalmente. Appena arrivo a New York ordino una classica cheese slice. Mi piacciono anche quelle terribili da 0.99 cent. Un sapore introvabile qui in Italia. A Milano invece la mia pizzeria preferita è Il Moro 2, dove ordino la Pizza Egiziana da quando ho 6 anni.