Il prossimo 15 gennaio uscirà Anarchytecture, il nuovo album degli Skunk Anansie. La copertina è ad opera di un italiano, che tiene molto alla propria riservatezza e che si è fatto conoscere solo con il suo nome d’arte: No Curves. Ha un gusto anni decisamente anni 80 e la caratteristica di creare quadri utilizzando solo nastro adesivo colorato e taglierino. L’effetto finale è sbalorditivo. Vi mostriamo il making of della cover e ci siamo fatti raccontare meglio da lui da dove nasce questa tecnica così particolare.
Come è nata la collaborazione con gli Skunk Anansie?
In maniera del tutto inaspettata. Ho ricevuto una telefonata qualche mese fa da parte di Anna Maria Negri, che oltre ad essere una nota make up artist ha coordinato la produzione delle immagini fotografiche del nuovo album con il fotografo Emilio Tini. Tra uno shooting e l’altro, cambi d’abito e complice una bobina di nastro adesivo finita è uscito il mio nome. Il caso ha voluto che ci fosse anche una copia del mio libro We Believe in Angles and Straight Lines e la band ne è rimasta entusiasta. Tempo di ricercare il mio numero tramite amici e coordinarci con la manager e ci siamo incontrati.
Quanto hai lavorato al progetto?
Circa un mese, principalmente per la preparazione e lo studio del concept. La realizzazione dell’originale mi ha preso pochi giorni in realtà. C’è stato moltissimo scambio con loro e la volontà di realizzare davvero qualcosa di nuovo e inusuale rispetto al classico mondo del rock. Ho cercato di trasfigurare in forma geometrica tutti i membri della band: Skin è una sorta di regina punk-rock, Ace lo spirito del suono, la passione bruciante della musica, Cass il bassista è il flow lento del basso, le profondità marine sempre in movimento e Mark il batterista è una sorta di cyborg-drum machine che ricorda Roy Batty di Blade Runner.
Le tue grafiche mi ricordano quelle delle copertine delle videocassette e delle audiocassette di fine anni 80, c’è un possibile collegamento? Alla fine erano nastri anche quelli.
L’immaginario degli anni 80 è una bomba, era l’alba della tecnologia digitale, i pixel e le prime grafiche vettoriali ultracolorate. Sono nato a cavallo tra gli anni 70-80 e ci sono cresciuto in quel mondo. Le audiocassette sono state un simbolo della mia giovinezza, insieme al walkman; tutto era più vero e tangibile. Penso che ci siano sempre dei collegamenti con la cultura con cui cresci e ti confronti. Credo che il bisogno di realizzare opere con il nastro adesivo sia nato dal desiderio di ritornare a qualcosa di veramente fisico, analogico dopo il boom/overdose digitale degli anni 2000.
Quando è arrivata l’idea che potessi usare il nastro adesivo per fare dei quadri?
È stato un percorso naturale, originariamente i primi lavori erano interventi su manifesti pubblicitari in maniera molto minimale e concettuale. Col tempo, crescendo stilisticamente, senti la necessità di evolverti e approfondire l’eredità del passato, il patrimonio delle generazioni che non ci sono più fisicamente, ma sono una presenza tangibile a livello culturale. Ho sempre avuto una estrema fascinazione per la pittura italiana del rinascimento o dei grandi paesaggisti americani e inglesi dell’800 e’900 anche se, a livello pratico, non ho mai voluto utilizzare la pittura tradizionale. Il nastro lo ritengo una nuova forma pittorica “adesiva”, una via di mezzo tra la tradizione e la sintesi estrema della pittura astratta.
Spesso utilizzi delle superfici trasparenti per creare sovrapposizioni molto interessanti.
Si tratta di diverse qualità di plexiglass e materiali plastici trasparenti. Hanno una lucentezza diversa e il loro spessore variabile permette di creare delle architetture di luce derivate dalle ombre delle immagini sovrastanti. È come regalare all’opera molteplici punti di vista e nuove forme. Molte delle opere realizzate in appositi box cambiano le sembianze in base alle condizioni luce del giorno.
Malignamente si potrebbe dire che tanto lavoro manuale potrebbe essere sostituito molto più facilmente da quello digitale, qual è la più grossa differenza a tuo avviso?
Come ti accennavo prima, c’è stato in passato, e c’è ancora di più oggi, una sorta di overdose digitale. Ci stiamo avviando verso un futuro coperto da un velo digitale e c’è la necessità di trovare dei punti saldi, che ci permettano di rimanere coi piedi per terra anche se la testa è ormai un mondo elettronico. Tornare a fare arte con le mani è d’obbligo. Bisogna lasciarsi trascinare dalla casualità del reale e dall’improvvisazione, senza la possibilità di correzione a tutti i costi che è tipica del lavorare in digitale.
Spesso i tuoi soggetti sembrano usciti dalla cameretta di un bambino – robot, astronauti, supereroi – cosa ti affascina di questo tipo di immaginario?
La loro spontaneità. L’iconicità. C’era un tempo in cui gli Eroi erano Eroi e basta, dove gli archetipi erano chiari e ti permettevano di misurarti con il mondo adulto con gradualità, dandoti la possibilità di scegliere un passo alla volta. Ora dove sono gli eroi?
La tua principale preoccupazione quando allestisci una mostra è che il nastro secchi e si stacchi?
No, quella è l’ultima. Anzi non lo è proprio. C’è solo una preoccupazione, ed è quella di regalare un po’ di sorpresa e sogni a chi guarda le tue opere.