Luigi Serafini sarà al Better Days Festival il 30 e 31 gennaio
La prima edizione del Codex Seraphinianus – datata 1981 – in due volumi, costava 160mila lire: oggi sarebbero 330 euro. Va bene i rampanti anni ottanta, l’edonismo che proprio da quel 1981 sarebbe stato reaganiano, la Milano da bere, ma ci siamo capiti: erano comunque un bel po’ di soldi. Quel libro incredibile – ristampato da Rizzoli nel 2006 in un’edizione decisamente più popolare – però li valeva tutti, anzi, ne valeva molti di più: oggi vale dieci, venti volte tanto. Inestimabile la fantasia che c’era dentro, il sogno di un naturalista dell’immaginazione, la follia colorata e bellissima, i mondi surrealisti che prendevano vita e forma pagina dopo pagina. Il Codex era l’opera di un esordiente, un ragazzo cresciuto un po’ a Roma e andato un po’ in giro per il mondo, architetto, che se ne stava in una mansarda in Sant’Andrea delle Fratte, che aveva fatto il liceo dagli Scolopi, quando ancora la Capitale era pasoliniana, intatta. Quell’enciclopedia immaginaria la pubblicava Franco Maria Ricci, già allora l’ultimo esteta, la mente di FMR che oggi ha realizzato il sogno del suo labirinto.
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Luigi Serafini, nato a Roma il 4 agosto del 1949: artista, architetto e designer. Di tutte le sue opere, tutte colorate, fantasiose, surreali, si ricorda sempre il Codex Seraphinianus, la leggendaria enciclopedia immaginaria illustrata, scritta in una lingua che malgrado i tentativi, risulta ancora indecifrabile. Per un semplice motivo: perché lo è. Serafini per realizzare il suo Codex era rimasto chiuso due anni e mezzo in casa. Sostiene spesso che l’abbia fatto “for the sake of it“, solo per il gusto di farlo. A conoscerlo, capiremo che è proprio così.
Le chiedono sempre tutti del Codex, non ne potrà più. Che cosa non ha ancora raccontato?
Non lo so, veramente non lo so [ride] ho l’impressione di ripetermi continuamente.
È un libro che genera ossessioni, chissà quanti le scrivono
Sì, trovano interpretazioni che vanno dall’esoterico, al new age… tutti cercano di trovargli un senso, anche se oggi mi contattano un po’ meno. Chissà, forse un giorno si scoprirà che mentre lo disegnavo avevo un chip, magari messo durante un incontro ravvicinato. Anche se sono sempre stato dell’idea che fossi in comunicazione ESP con un gatto [ride] c’era sempre un gatto che mi si addormentava sulle spalle, ci starebbe anche.
Proviamo a raccontarlo comunque
Sì, forse c’è qualcuno che non lo conosce, partiamo, repetita iuvant. Il Codex nacque nel 1976, a settembre. E questa febbre mi durò un paio di anni e mezzo. Poi dopo ancora ci fu una lunga attesa di tre, quattro anni perché fosse stampato.
Com’è nato? Ho letto che non aveva nessun progetto in realtà. Il Codex è semplicemente successo
Quando nacque ricordo che nacque come necessità, come un bisogno impellente di fare una cosa che era già all’interno di me. Non c’è stata nessuna preparazione, è stato più un “vediamo che cosa succede”. Senza un progetto: semplicemente nacque.
È vero che la sera in cui lo iniziò l’avevano invitata al cinema e rimase a casa, a disegnare le prime tavole del Codex? “No resto a casa, devo fare un’enciclopedia”, una scusa bellissima
Sì, non ricordo se era il cinema o un’altra cosa, ma è vero. La consapevolezza nasce spesso all’improvviso, uno fa una cosa e magari non ne è ancora cosciente, però la fa. Non so, la coscienza è una cosa abbastanza strana, non sai mai come funziona. Mi resi conto di quello che stavo facendo a circa una settimana dall’inizio. Avevo cominciato subito a fare le pagine.
Quali furono le prime tavole?
Le prime erano tavole di umani e macchine, dei cyborg, corpi umani con delle protesi, e poi delle macchine immaginarie. Quelle furono le prime tavole. Quando mi resi conto di quello che stavo facendo cominciai ad andare a zig zag, a fare tavole di botanica, poi mi dedicavo per un po’ alla zoologia, poi passavo all’architettura. Andavo a random, ma con l’idea dell’enciclopedia. Il momento di consapevolezza l’avevo avuto.
E come l’ha disegnato?
Tutte le illustrazioni sono fatte a matita, matite colorate e inchiostro di china. All’epoca usavo molto una rapidograph (penna utilizzata per il disegno tecnico, ndr).
Un lampo di consapevolezza e poi anni di lavoro
Fu un lavoro continuo per due anni e mezzo, un lavoro da amanuense, da monaco benedettino, o forse cistercense.
Che Roma era quella in cui disegnò il Codex?
Ricordo che all’epoca quando disegnavo il Codex, Sant’Andrea delle Fratte dove vivevo, le vie intorno a piazza di Spagna, erano proprio un villaggio, poi negli anni ottanta arrivò la gentrification. Io ho vissuto una Roma molto “antica”, una Roma molto popolare. È incredibile immaginare com’era allora il centro storico. Sant’Andrea delle Fratte, dove vivevo, adesso è centrissimo, passano fiumi di turisti, reggimenti di giapponesi, di tedeschi, di francesi: all’epoca tutto questo non esisteva. Era una Roma che ancora in qualche modo poteva ricordare il grand tour: quella parte di Roma che poi nell’ottocento era chiamata the english ghetto, dove c’era la casa di Keats. Tutti gli inglesi soggiornavano lì, tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, e poi anche Goethe aveva abitato da quelle parti. Di notte si incontravano ancora i fantasmi di quell’epoca. Poi è cambiato tutto.
Lo studio milanese di Luigi Serafini è a Lambrate. In una Lambrate che sta cambiando da qualche anno, in una parte di Milano che è sulla rampa di lancio per un percorso urbanistico simile a quello che ha già fatto l’Isola: una gentrificazione più lenta, ma il destino è segnato. Da popolare, a sempre meno popolare; e quando ne parla, Serafini non sembra ne sia entusiasta, ma prende atto. Serafini conserva però anche una casa studio a Roma, e dice spesso “vivo e lavoro in una città immaginaria, dove via del Tritone sbuca in piazza Cordusio“. Ha calcolato che nella piazza al termine di viale delle Rimembranze di Lambrate ci potrebbe stare giusto giusto il Pantheon romano. C’è da credergli.
Com’erano le sue giornate all’epoca?
Penso che forse solo dentro a un monastero potrei trovare delle analogie. Era una giornata che si svolgeva intorno al lavoro. Ora et labora. Disegnavo continuamente, poi certo, c’erano interruzioni, una trattoria sotto casa meravigliosa dove andavo a mangiare, e ogni tanto per il sostentamento dovevo fare dei lavori. All’epoca facevo ancora architettura, quindi lavoravo in qualche studio per arrotondare.
E riusciva a mantenersi?
La vita era poco costosa. L’affitto era minimo, e poi c’erano delle pizzerie meravigliose, era la situazione ideale. Essere giovani, avere molto tempo a disposizione, poter vivere veramente con poco, stare in un luogo ancora meraviglioso, in una città straordinaria. Era, come dire? La tempesta perfetta. Tanti elementi convergevano. Il Codex non l’avrei potuto fare in un altro luogo e in un altro momento. Ho avuto il privilegio e la fortuna di viverlo e di coglierlo quel momento. Destino.
Serafini ha viaggiato molto, non solo con l’immaginazione. Dei suoi grandi viaggi, viaggi di formazione, compiuti quando aveva vent’anni o poco più ricorda di muoversi “Passando come un bit da nodo a nodo. Cominciai a girare l’America. All’epoca, il 1971, stava nascendo la rete, i primordi del web. Però c’era già una rete, fisica, di giovani della generazione diciamo postbellica, i baby boomers. A pensarci bene, la seconda guerra mondiale era stata dominata da Enigma, da Turing: è un dato interessante a livello simbolico, come durante un conflitto il linguaggio diventi all’improvviso il contrario di quello che è. Si usa per non farsi capire. E quindi, la generazione dopo, guarda caso, fa nascere internet, che è il contrario di Enigma“. Prima ancora di qualunque connessione anche solo a 56k, Serafini si trova a vivere “Una specie di internet fisico, carnale, perché i giovani americani si muovevano ininterrottamente, come dei bit, in questi nodi… nello stesso tempo portando comunicazione. Uno dei sistemi per muoversi, parte il Greyhound, era quello di riportare le macchine a noleggio da una parte all’altra degli States. Forse è ancora così oggi, in America c’è una grande tradizione di movimento, l’America dei pionieri… l’America continua spostarsi“.
Ha viaggiato in America, Africa, Medio Oriente. Leggenda vuole che abbia persino risalito il fiume Congo
Risalito il Congo sì, ma non come gli esploratori! Si è trattato di una giornata abbastanza curiosa, ero molto giovane, ero finito lì per una serie di equivoci.
Sentiamo
A Roma dividevo la casa dove avrei poi costruito il Codex con un artista francese, non parlava italiano e quindi invitava spesso persone francofone. Venne a un certo punto un congolese, un signore molto elegante, che aveva un’ottima disponibilità economica. Spesso ci invitava a cena fuori, prometteva al mio amico di compragli dei quadri… figuriamoci, non comprò mai niente. Nello studio che dividevo con questo amico avevo il tecnigrafo, preparavo degli esami di architettura, e un giorno questo signore mi fa “Vorrei costruire una villa in Congo, per la mia famiglia”. Lo ascoltavo e sembrava una favola. Un giorno il congolese però sparì nel nulla, noi ce ne dimenticammo, dopo un po’ di mesi però si fece vivo: e mi chiese se volevo andare a Brazzaville per vedere il terreno dove avrebbe costruito la sua villa. Partii. Una volta arrivato rimasi in Congo bloccato perché avevo perso il biglietto dell’aereo… come se non bastasse, quelli erano luoghi sotto una grande tensione internazionale, il conflitto tra Cina maoista e Unione Sovietica si svolgeva anche lì, in Africa. Io ci sono finito in mezzo, senza sapere niente di quello che succedeva! Sono stato preso, messo in prigione in isolamento, perché senza saperlo stavo navigando sul fiume Congo, ma era una cosa turistica.
Il viaggio negli Stati Uniti invece?
Quello è il grande viaggio per me, iniziatico, nel 1971. Avevo ventuno anni. All’epoca studiavo architettura e decisi di andare a curiosare un po’ negli studi americani, perché sapevo che d’estate assumevano studenti. Negli Stati Uniti non conoscevo praticamente nessuno.
Partito senza niente, si dice solo con un sacco a pelo a una rolleiflex
Quando arrivai a New York avevo una famiglia che mi ospitò, li avevo conosciuti in Italia, e mi permise i primi contatti con il mondo nuovo, un mondo che avevo visto solo attraverso i film. Però all’epoca c’era una crisi economica in corso, quindi gli studi non assumevano studenti: decisi di lasciare New York. Avevo un vago indirizzo a Chicago, e lì attraverso un signore che non conoscevo neanche trovai un posto dove lavorare, al museo di storia naturale come pittore di foglie. Come decoratore.
Vent’anni, va negli Stati Uniti per fare l’architetto. Finisce a Chicago a dipingere foglie in un museo. Fantastico
Eh sì, anche qui a Milano, al Museo Civico di Storia Naturale, ci sono i diorama: e i diorama richiedono poi degli artisti, degli artigiani, per dipingerli. Io a Chicago dovevo dipingere questo paesaggio, era lo sfondo del diorama dedicato delle anatre nel lago Michigan, all’alba. Le anatre erano già lì, più o meno impagliate, poi però tutte le piante dovevano essere riprodotte fedelmente, i colori dovevano essere quelli della stagione.
Lì comincia il vero viaggio
Sì, lì cominciò una grande avventura.
Prima dell’avventura però, prendiamo fiato. La casa studio a Lambrate dove il fantastico sbuca da ogni angolo conserva anche molte opere di Luigi Serafini. Ci si perde soprattutto tra le installazioni di Luna Pac Serafini, la mostra del PAC che nel 2007 colorò con la fantasia e 11mila visitatori la stagione dell’arte milanese. Tra la lunetta al neon del Luna Pac, un quadro da terminare, giganteschi uccellini antropomorfi, tonni tagliati a metà e pale d’altare dorate, appare anche Persephone C., più nota al grande pubblico come “la donna carota“. Esposta a Expo 2015 allo stand di Eataly. Un’installazione che scatenò assurde polemiche – accusata di “maschilismo pecoreccio” o “ortopornonecrofilia” – mentre Serafini rispose da uomo d’altri tempi, con una missiva indirizzata a Dagospia “per aiutare il visitatore benevolo alla comprensione dell’opera, ho collocato su un leggio una copia da sfogliare dell’ottava edizione del Codex Seraphinianus (Rizzoli edit, Milano 2013), libro amato da Calvino e Barthes. La cosa però più sorprendente, è che nessuno abbia messo in relazione la figura della Donna Carota con il mito di Persephone (la Proserpina dei Romani), ovvero l’antica rappresentazione dei cicli della natura. Nessuno cita il lago naturale di Pergusa, in provincia di Enna, al centro della Sicilia, dove il rapimento di Persephone avvenne. Nessuno cita Bernini e il meraviglioso Ratto di Proserpina della Galleria Borghese, perché forse maschilista. Nessuno cita centauri e sirene, nereidi e chimere, arpie e unicorni, Cerbero e Pegaso, Dafne, e Aracne, Filemone e Bauci. Un deficit assoluto di cultura classica in un paese dove ovunque ti giri, trovi una stratificazione, un suggerimento. Insomma YouPorn batte le Metamorfosi di Ovidio 100 a 0“. In giorni di statue coperte ai Musei Capitolini per eccesso di zelo nei confronti del Presidente iraniano Rouhani, è una lettura utile.
Molte persone oggi si tatuano i suoi disegni
Sì, ho visto, in fondo stiamo parlando ancora una volta di comunicazione. E il Codex è una forma estrema di comunicazione, una comunicazione al contrario. Non avendo una lingua, diventa una specie di lingua universale, perché di fronte al Codex tutti sono analfabeti.
Non è stata immediata la pubblicazione
Tutti pensavamo fossi folle, nessuno capiva questo mio bisogno di fare un libro, di mettere in comunicazione, di superare quello che era il recinto del sistema dell’arte fatto dal museo, dal gallerista, dalla mostra. Questo scavalcare, questo andare in un’altra direzione nessuno lo capiva. Ma neanch’io la capivo.
Sì spostò da Roma a Milano
Il Codex fu fatto a Roma, però Roma non aveva risorse di tipo editoriale, per cui volendo non usare il sistema dell’arte, ma un altro sistema di comunicazione, non potevo fare altro che venire a Milano, non conoscevo nessuno. Fu proprio un’esplorazione. Avevo visto Franco Maria Ricci in una foto, un’altra volta avevo visto in una vetrina uno dei suoi volumi della collana I segni dell’uomo, era Il bestiario di Zötl. Lo vidi e pensai che ci potesse essere un’intesa. E così riuscii a contattarlo.
In che modo?
Feci una specie di agguato. Mi piazzai in macchina vicino al suo ufficio, sapevo che passava di lì, era via Santa Sofia, avevo una sua foto. Stavo lì ogni giorno dalle tre alle sei, così! Aspettavo, prima o poi sarebbe passato. Fui molto fortunato perché il secondo giorno passò, fu una fortuna, al tempo stava spesso a Parigi, e quindi potevo aspettare mesi, anni, magari mi sarei scoraggiato. E quindi quando lui entrò, lo seguii, entrai dentro gli uffici con questi disegni che avevo in mano, una ventina, erano in una cartelletta. Entrai dentro questa stanza dove ero come in trance, e c’era un grande tavolo al centro, con libri in corso d’opera e quant’altro, e c’era appunto Franco con un suo collaboratore, che rimase molto colpito.
E poi?
Tirai fuori dalla cartellina questi disegni. Erano più o meno della stessa dimensione della stampa finale del Codex. Sciorinai, buttai sul tavolo i disegni, come fosse una smazzata di carte. Ricci rimase muto. Dopo un po’ il suo collaboratore penso volesse mandarmi via, Ricci invece mi fece qualche domanda, e insomma, quel silenzio mi fece ben sperare. E infatti fu così, dopo un po’ cercai di spiegare cosa facevo, chi ero, in fondo per loro ero un completo sconosciuto. Franco disse che la prossima volta che tornava a Roma ci saremmo rivisti, e così è cominciata la storia. Lui all’epoca vedeva spesso Borges, c’era tutto un gioco sulle enciclopedie, Orbis Tertius… si mescolò realtà e fantasia.
Il Codex era il libro perfetto per il Ricci di quel periodo
Era il momento giusto. C’era una grande riscoperta dell’immaginario, con Borges e la sua Biblioteca di Babele e Giovanni Mariotti con la Biblioteca Blu, loro aprivano l’avanguardia di un cambiamento anche ideologico, anche di gusto.
Già, Franco Maria Ricci, che nel frontespizio della prima edizione del 1981 del Codex scrisse “Questo foglio volante non vuole essere una introduzione, ma una sorta di bolla d’accompagnamento. Bene farà dunque il lettore a stracciarlo, evitando così di contaminare con il morbo alfabetico le meraviglie mute dell’Orbis Pictus Seraphinianus“. Nel 1981 invece Vittorio Sgarbi disse “tutto ha un posto e una casella nell’ordine meticoloso e perverso dell’universo serafiniano, dove anche l’uomo subisce le deformazioni d’uso nel regno vegetale, torcendo braccia e piedi come una sedia Thonet“.
Ha presente il panico da scrittore da pagina bianca? Lo ha mai provato nel disegno?
No, mai avuto [sorride] ma è anche una questione di allenamento, di disciplina. Al contrario, la pagina bianca più che darmi panico mi rassicura. A forza di averci lavorato, di fronte a una pagina bianca non ti perdi.
Luigi Serafini, a cosa servono i libri?
Il libro ha la funzione di cambiare la vita. Si apre un libro, un giornale, e sono dei lampi spesso, che in qualche modo illuminano il nostro cervello. Magari non ci rendiamo conto, ma il giorno dopo quei lampi hanno rischiarato qualcosa. Questa è una cosa straordinaria dei libri. Hanno questa funzione. Non so se lo schermo riesce a fare lo stesso. Lo schermo si deve proprio attivare, il libro è molto più disponibile. È molto più veloce di qualsiasi connessione internet. È subito lì. È subito libro, non servono password né niente. Il libro è un grande amico dell’inconscio. Pronto a diventare oracolare, pronto a diventare il libro della Sibilla. Intendo proprio qualsiasi libro.
Qui nel suo studio infatti vedo di tutto
Sì, riviste, libri, inserti culturali. Leggo il quotidiano al mattino, mi piace sfogliarlo. Trovo cose che non sapevo di voler sapere, è la casualità della scoperta. Poi spesso nello scorrere delle righe trovi quello che credi di aver scoperto, invece è un gioco di specchi: magari ti ha trovato lui.
Negli anni ottanta collaborò con Memphis, il gruppo di designer fondato da Ettore Sottsass: come entraste in contatto?
Il Codex era diventato una specie di passepartout, apriva le porte dei posti più strani. Memphis, Fellini, Sciascia, Roland Barthes, Calvino naturalmente… e anche il rapporto con Memphis nacque dal libro, il Codex all’epoca fu intercettato da Michele De Lucchi, che lo fece conoscere a Ettore Sottsass, che era un grandissimo appassionato di disegno. Nacque tutto casualmente.
E con Federico Fellini invece?
Sempre il Codex. Credo che fu Sciascia a farlo conoscere a Fellini. Lui a sua volta l’aveva avuto da un artista, un pittore, Fabrizio Clerici, un post surrealista molto simpatico, milanese. Una mattina Fellini mi telefonò, con la sua vocina molto gentile, e così nacque un’amicizia.
Cosa ricorda di quel periodo?
Era un periodo in cui Federico doveva camminare, il medico gli aveva prescritto un po’ di moto. E ci vedevamo spesso, facevamo delle passeggiate: lo andavo a prendere in piazza di Spagna, prendevamo un caffè da Rosati, o da Canova, e poi si saliva verso il suo studio a Porta Pinciana. Facevamo questa camminata, e la cosa buffa era che naturalmente quando si partiva da piazza di Spagna lo conoscevano tutti, lo chiamavano, passavano delle motociclette e magari c’era sopra qualcuno che aveva fatto la comparsa, davvero, conosceva tutti. Godeva di questa popolarità spontanea e molto bella. Cominciavamo a passeggiare e man mano che ci si inoltrava verso Villa Borghese pian piano Federico cominciava a diventare anonimo. Ogni tanto qualche turista gli chiedeva informazioni, gongolava proprio a dare informazioni, gli piaceva tornare nell’anonimato. Nonostante fosse circondato da corti adoranti, aveva sempre questo desiderio e questa capacità di fuggire, quando meno te l’aspettavi, e squagliarsi. È buffo.
Lei è un artista più che versatile. C’è un’arte che preferisce?
La versatilità fa parte in pieno della tradizione italiana. Il Rinascimento è la scoperta proprio di questo, è un po’ una caratteristica degli italiani: si arrangiano. I grandi del Rinascimento facevano tutti un po’ di tutto. Caravaggio era un grande couturier, per dirne uno. I grandi artisti erano stilisti, scultori, architetti. Giò Ponti che è stato un rappresentante di questo modo di essere, tutto italiano, che è un po’ antispecialistico. Sembra sempre che alla fine quello che è importante sia l’idea, il pensiero, la visione, e una volta che c’è questo poi dopo uno riesce a declinarla in infiniti modi.
E non ne ha una preferita?
Certo, diciamo l’onnipotenza che ti dà il disegno… cosa c’è di meglio? Con due matite e un pezzo di carta riesci a raccontare il mondo, stando seduto, bevendoti una birra. Dietro ogni cosa, ogni attività, c’è sempre e comunque il disegno, è una caratteristica anche questa dell’arte italiana, il disegno è stato fondamentale. Qui a Milano alla Pinacoteca Ambrosiana ci sono meraviglie, cartoni di Raffaello, forse sono la cosa più genuina della sua mano, la più autentica. Il disegno è stato sempre un po’ sottovalutato, sempre pensato come preparatorio per qualche altra cosa. Basta un foglio di carta bianco.
Saltando all’attualità: cosa sta facendo ora?
Adesso sto preparando da ristampare, come hanno fatto con il Codex, la Pulcinellopedia, del 1983. Sempre con Rizzoli stiamo pensando a una ristampa, con qualche aggiornamento. Mi ha fatto molto piacere vedere questo libro di Agamben uscito adesso su Pulcinella, è tragico e comico.
Quali altri progetti futuri?
Un po’ di Cina, la Cina è sempre vicina. C’è stata un’edizione cinese del Codex che è andata benissimo, volatilizzata. E ha generato un Codex falso. Una delle condizioni era che il Codex fosse stampato in Italia, credo di essere uno dei pochi che stampano in Italia, gli altri fanno tutto il contrario! È un po’ caro, ma alla fine è stato apprezzato in Cina. Sono andato anche alla presentazione e sono successe delle cose bizzarre… il problema della contraffazione in Cina è molto complesso, perché copiare in Oriente è anche omaggiare. Poi hanno scoperto che con questo omaggio possono fare anche i soldi, e sono tutti contenti.
Se lo falsificano comunque è un buon segno
Il libro ha avuto subito un ottimo riscontro e qualcuno ha pensato di fare un Codex falso e venderlo in rete. L’editore cinese se l’era presa, aveva investito parecchio, il Codex costava, uno pensa sempre che la contraffazione funzioni solo con l’estero, ma ora funziona anche nel mercato interno cinese. Un’azienda cinese vede contraffatti i suoi prodotti da altre aziende cinesi. Il mercato cinese sta cambiando anche per questa ragione. Il Codex falso costava 1/5 dell’autentico.
Quanto costava in Cina?
Tra i 90 e i 100 euro quello vero, quello falso sui 20 euro. Ma ho visto che l’hanno comprato un sacco di giovani. Ne ho uno di quelli falsi, la cosa bella è che è anche stampato abbastanza bene, se uno non conosce l’originale, tutto sommato… in fondo il falso deve essere fatto bene, deve esserci comunque un’identificazione, un modo di sentire, e alla fine insomma, se uno lo trova in giro a 20 euro, ma perché no? Costa poco anche per la Cina [ride].