È una giornata piovosa di metà maggio, a Milano la terra di mezzo tra la Bovisa e Quarto Oggiaro dove c’è la sede di Recipient.cc – in via Villapizzone, nel quartiere omonimo – è inzuppata e più fredda di quanto la stagione suggerirebbe. Tra palazzi abbastanza anonimi, come tanti altri di una qualunque periferia milanese però, c’è un gruppo di creativi che hanno portato la fantasia, anzi, la curiosità al potere. Perché quella è la caratteristica comune di tutti i membri del collettivo Recipient, la curiosità. Ma cosa fanno le ragazze e i ragazzi di Recipient? Più che altro, cosa non fanno.
Dal video mapping per ricoprire facciate intere di palazzi, al sound design, alla user experience e al web design, a moltissimo altro ancora, dai videogiochi, al Kinect mapping, che vedremo questo weekend al festival MI AMI 2016, al Circolo Magnolia di Milano, applicato a due degli headliner del festival: il producer elettronico SBCR e la superstar del rap italiano Noyz Narcos. I movimenti dei due artisti verranno tracciati in tempo reale e la loro immagine trasformata in giganteschi e sorprendenti avatar animati proiettati attorno al palco. Un po’ sognatori, un po’ concreti, con uno studio diviso in tre aree: la prima in cui entro, che ricorda il laboratorio di un fabbro o di un falegname, la seconda, piena di computer di ultima generazione, limbo bianco fotografico, e una strana macchina a rullo sulla quale un artista sta dipingendo, la terza, più di rappresentanza, dove registreremo l’intervista.
I primi due ambienti riassumono perfettamente lo spirito di Recipient, a metà strada tra una manualità artigianale che più analogica non si può, e la freddezza digitale delle macchine, del computer. Loro riescono a fonderle perfettamente, in macchine calde, in una simbiosi tra mondo geek e artigianale che hanno già portato in giro per il mondo con successo. I nomi: Martino Coffa, Andrea “d0k” Ceccarelli, Luce Sibilla Balzarini, Germaine Colajanni, Davide Dell’Orto, Giulio “Spyke” Denna, Tommaso “Sgurz” Fiori, Andrea “Hansen” Ghia, Alessandro Inguglia, Ignazio Lucenti, Angelo Mennillo, Davide “Tucano” Rambaldi, quasi tutti intorno alla trentina, a volte, con qualche anno meno. A ogni progetto poi i Recipient sono ancora più, aumentano, con collaboratori esterni che portano linfa nuova al gruppo creativo.
Nella sede di Recipient Martino Coffa sta seduto a una postazione piena di tutto quello che può ingombrare una scrivania di un creativo poco più che trentenne, compreso un controller per regia televisiva che utilizza come se fosse un mouse. Si chiacchiera tranquillamente, insieme ad Andrea Ceccarelli.
Lo spirito di Recipient lo si respira qui dentro, ma qual è lo stile di Recipient?
[Andrea Ceccarelli] Internamente tutti quanti veniamo da un immaginario un pochettino nerd, siamo tutti molto tecnici, ci piace l’estetica delle cose generate dalle macchine, che è in parte l’estetica dei primi computer con cui abbiamo iniziato e in parte quella derivata dalle possibilità di oggi, per esempio con una computer graphic generativa, in cui lasciare la macchina libera di lavorare sulle forme. Vedere la macchina che crea estetiche è un percorso sperimentale, lo scopriamo mentre lo facciamo.
Si dice che la scienza proceda per tentativi
[Andrea Ceccarelli] Da noi sicuramente [risate]
Entrando qui dentro e conoscendo i vostri lavori date un’idea di creatività e concretezza, voi vi sentite più sognatori o concreti?
[Martino Coffa] Sogniamo di concretizzare delle cose e attraverso il sogno cerchiamo di arrivare a qualcosa di concreto.
E qual è il vostro sogno adesso?
[Martino Coffa] Il sogno è continuare ad avere la possibilità di ricercare e sperimentare come facciamo ora.
Guarda la gallery Il motto di Recipient Collective - Foto: Mattia Buffoli Recipient Collective al gran completo - Foto: Mattia Buffoli Ignazio Lucenti, 33 anni - Foto: Mattia Buffoli Luce Sibilla Balzarini al lavoro nello studio di Recipient Collective - Foto: Mattia Buffoli+23
Fate una cosa molto bella, ma molto difficile da spiegare
[Martino Coffa] Sì, è vero… quando ci chiedono “Ma voi cosa fate?” le risposte possono essere svariate, la risposta di solito è quello che stiamo facendo in quel periodo: quindi installazioni, project mapping… si parte appunto dall’installazione interattiva, in motion graphics, il sound design, e poi tutto quello che è generativo, compreso il sound design generativo. Si passa anche per hardware fatto ad hoc, e lo facciamo tutto noi. Facciamo tutto in casa, a parte le cose che hanno necessità di strumentazioni che non possediamo, per i pezzi però poi assembliamo tutto noi qui. Ci occupiamo di tutto, ed è una caratteristica molto importante del nostro collettivo, quella di unire la parte creativa e artistica a quella pratica. I nostri progetti non escono di qui, non ti devi interfacciare con altre persone e il tutto riesce poi a raggiungere un livello diverso, che se fosse fatto a fasi separate sarebbe più complesso.
A proposito di complessità, volevo chiedervi del mapping sul Grattacielo Pirelli a Milano. Tre anni fa avete lasciato a bocca aperta un’intera città
[Andrea Ceccarelli] Il videomapping sul Pirellone è stata un’impresa titanica. Con i suoi vantaggi, certo, perché il Pirellone essendo un edificio – per fortuna – rispetto a una persona, sta fermo. Puoi fare rilevamenti fotografici, o trovare cartografie e modelli, insomma, parti avvantaggiato. Poi la dimensione: 9000 metri quadri, una superficie tale che in Italia probabilmente non era mai stata fatta, ha richiesto 12 proiettori, una settimana di set up in cui eravamo lì tutte le notti. Perché ovviamente i test vanno fatti al buio. Però ha funzionato molto bene, anche il cliente era felice alla fine, che è sempre l’obiettivo finale. Avevano fatto degli esperimenti simili in Francia e non erano stati del tutto soddisfatti, ma alla fine ce l’abbiamo fatta.
E invece che cosa porterete al MI AMI?
[Andrea Ceccarelli] Seguiremo la parte visuale, per cui nelle due serate ci occuperemo di tutti gli schermi che abbiamo a disposizione, non so nemmeno quanti metri esatti siano! Ma è una cosa davvero grande, non come il Pirellone, ma uno stage davvero considerevole. In più c’è la parte in cui sperimentiamo un pochettino con un laser, lì è interessante perché avremo un laser davanti, e non sarà come gli ologrammi che abbiamo fatto altre volte. In più giochiamo con la Kinect e facciamo in modo che due degli artisti di punta – SBCR e Noyz Narcos – abbiano un puppet che segue i loro movimenti sul palco, facendoli diventare dei giganti alle loro spalle. Questa è la parte più originale dello spettacolo.
Puoi spiegare meglio la parte di Kinect mapping?
[Andrea Ceccarelli] La Kinect è un accessorio per console da videogiochi in vendita dal 2010, che permette di utilizzare il proprio corpo per controllare quello che vediamo sullo schermo. La Kinect “monta” un sensore che è simile a una videocamera, ma ha in più delle informazioni che vengono sparate sugli infrarossi e che danno una connotazione dello spazio, quindi fanno un piccolo render in 3D scansionando l’ambiente. Questo permette di avere tutta una serie di informazioni sull’ambiente davanti alla telecamera, e a quel punto degli algoritmi possono estrapolare da questi dati che lì c’è una persona: quelle informazioni noi le prendiamo su un modello 3D che varia a seconda dell’artista, e quel personaggio 3D avrà le stesse connotazioni di scheletro dell’artista, e i movimenti saranno sincronizzati tra queste due entità. Muovendosi sul palco l’artista controllerà il puppet sugli schermi.
Da quanto tempo si può fare questa cosa?
[Andrea Ceccarelli] Teoricamente si può fare da tempo, ma all’atto pratico ci sono tutta una serie di limitazioni: per fare tutto in maniera coerente, ci vogliono molti soldi. L’industria dei videogiochi ce li ha, e pochi altri: nel campo del teatro non ci sono i budget per fare queste cose per esempio, per cui è difficile vedere sperimentazioni con il Kinect.
In breve: quando saranno sul palco SBCR e Noyz Narcos al MI AMI 2016 avranno alle loro spalle un puppet gigantesco, con le loro sembianze, che replicherà i movimenti che compiono in tempo reale. Al di là delle spettacolari sperimentazioni con la Kinect, una delle parti più interessanti del lavoro svolto da Recipient riguarda il video mapping generativo. Ovvero: insegnare alle macchine a creare da sole.
Tornando a quello che raccontavi prima, il vostro lavoro è fatto insieme alle macchine: ma i computer, a un certo punto, li lasciate lavorare da soli
[Andrea Ceccarelli] La parte generativa del software è quella che in questo periodo ci piace un sacco. Recentemente abbiamo seguito un evento a Dubai, che aveva una parte considerevole di generativo. Era una serie di laser messi a creare uno spazio, su una serie di schermi, per cui proiettando a un certo punto ottenevi un cubo di spazio: a quel punto in quel blocco cubico di laser siamo andati a proiettare un lavoro di software. Partivamo da un lavoro semplice: una circonferenza. Poi abbiamo implementato una serie di meccanismi, di morphing, di variazioni di questa superficie, alcuni ispirati alla natura, per esempio dalla moltiplicazione delle cellule, o dalla proliferazione, o dalle colonie batteriche, e via di seguito…
Avete insegnato alle macchine a creare da sole
[Andrea Ceccarelli] Esatto, a seguire comportamenti che trovi in algoritmi. E a quel punto quell’algoritmo lì viene mutuato in una cosa che diventa estetica. Per cui che fa morphare questa sfera, che in alcune parti sembra viva e pulsante, mentre altri morphing la trasformano in maniera che ricordi le lavorazioni di metallo e altro. Da una parte un’estetica più materica, dall’altra hai dei comportamenti che sono naturali, biologici, e quello che si va a generare è qualcosa che sfasa…
È la matematica della natura
[Andrea Ceccarelli] Esatto, l’ispirazione da cui si parte è quella: poi la macchina ha la potenza per mandare questi calcoli all’infinito
E a un certo punto perdete il controllo
[Andrea Ceccarelli] Sì, noi interagiamo con delle variabili e il codice stesso ha dei fattori di moltiplicazione, per cui possiamo far agire un effetto di più o di meno, ma poi è sempre tutto diverso, alterato da microfattori. Non è controllabile in tutto e per tutto. È come una performance di danza, replichi la stessa coreografia, ma tutte le volte il balletto avrà qualche dettaglio diverso.
Martino Coffa ha 34 anni, è uno dei fondatori di Recipient. Occhio intelligente, curioso, barba folta, capelli lunghi. Ricorda un po’ in hippie californiano, con venature nerd impensabili quarant’anni fa. Musicista di estrazione, appassionato di hardware, software e tecnologia in generale, ama smontare le cose per vedere come sono fatte dentro. Oggi è tra quelli che tirano le file del collettivo Recipient.
Recipient esiste ormai da un bel po’ di anni, ma come è nata?
[Martino Coffa] È nata come esigenza di esprimere delle capacità o delle voglie legate al mondo dell’arte. Perché inizialmente era un collettivo prettamente artistico, si dava sfogo a ogni propria pulsazione, creativa…
Tu cosa facevi come lavoro principale all’epoca?
[Martino Coffa] Facevo musica per la pubblicità, ma ho una storia lavorativa molto lunga, provenivo da lavoretti semplici in aziende grandi, a essere in proprio come musicista, facevo jingle per gli spot. A un certo punto ho cominciato a mettere sempre più programmazione in quello che facevo, aggiungendoci l’interattività. E in quel periodo il collettivo stava crescendo. Seguivo due progetti, decidemmo di fonderli in Recipient, per portare avanti un progetto unico.
Le prime sperimentazioni di Recipient a quando risalgono?
[Martino Coffa] Stiamo parlando di sette, otto anni fa. Il primo mapping ci siamo incontrati io e Ignazio Lucenti, lavoravamo insieme in uno studio di una persona che ci aveva accolto entrambi come collaboratori. Lui lavorava con l’animazione 3d, io di tecnica ne sapevo, ci siamo detti, proviamo! E abbiamo fatto i primi test, rubando la corrente la sera, sui palazzi, completamente a caso, se ben ricordo sui Navigli.
E che facevate?
[Martino Coffa] Proiettavano sulle case, appoggiati sulle macchine degli altri, nessuno capiva cosa stessimo facendo! Poi da lì in una nostra amica ci ha invitato a partecipare un festival, che a Milano oggi ha abbastanza di rilievo, il Video Sound Art, dove ci sono arti, concerti, quello è stato il nostro debutto col mapping facendo il Castello Visconteo ad Abbiategrasso. Avevamo proposto di fare un mapping di 35 minuti… una follia. Ma stiamo parlando proprio di un’altra epoca.
Era il periodo in cui rinasceva il videomapping
Più o meno nove anni fa c’è stato questo gruppo di olandesi, molto commerciali, che ha ricominciato a credere nel video mapping, e ha dato lo spunto: per cui tutti gli artisti che avevano a che fare con ambienti visuali e di video si sono buttati in quella strada. Noi siamo arrivati proprio nel periodo in cui si stava sviluppando la scena del videomapping, che in fondo è una tecnica in parte anche non nuovissima, sviluppata col video, che veniva utilizzata in un’altra maniera, con immagini statiche che andavano a modificare la percezione di scenografie. Altre tecniche arrivano dal teatro dell’ottocento, erano morte e defunte, furono resuscitate.
La curiosità al potere. Vi trovate in questa definizione?
[Martino Coffa] Sicuramente sì, ogni progetto è una sfida, e la curiosità anima gran parte della nostra ricerca: nel senso che siccome tutto si fonda molto sulla ricerca in questo studio, perché tentiamo sempre di non fare cose già fatte, o quantomeno di prendere ispirazione ma portare a un livello diverso rielaborato da noi, la curiosità è una delle essenze di Recipient.
Dove vi ha portato questa curiosità ultimamente?
[Martino Coffa] C’è un videogioco in cantiere che però zoppica un pochino, che chissà, forse vedrà la luce, abbiamo prodotto videogame per Oculus, ma più roba esperienziale…
Di che tipo?
[Martino Coffa] Per chi aveva paura del volo. Gli psicologi facevano fare viaggi, in aereo, con Oculus. Una persona sale sull’aereo, vola, e atterra, il tutto per combattere la paura di volare con l’esperienza Oculus. E funzionava molto bene, nel senso che la gente si cagava sotto! [risate]
Hai parlato di Oculus, se ne parla tanto: ma quali sono le potenzialità di quella realtà virtuale?
Diciamo che in questo periodo è ancora una fase di sperimentazione, anche per gli sviluppatori, per capire cosa potrebbe diventare: non è ben chiaro neanche a loro. Infatti ci sono esperimenti che vanno in tutte le possibili direzioni, dall’esperienza del film con delle interazioni in più perché vuol dire non avere più inquadratura decisa dal regista, alle esperienze pure, proprio i viaggi in altre dimensioni. C’è ancora molto, quasi tutto ancora da scoprire.
Oltre ai voli in aereo di cui mi dicevi state facendo altro con Oculus?
[Martino Coffa] È uno strumento che ci piace molto, ma ancora non riusciamo a utilizzarlo con un’espressione nostra.
Forse perché le cose che fate sono un po’ più da vivere all’aperto, senza occhiali
[Martino Coffa] Oculus è molto spinto dalle agenzie come esperienza interattiva, marketing, perché poi si finisce sempre lì… e trovo che come esperienza di marketing sia assolutamente limitante. Per cui in realtà ogni volta che ce lo propongono cerchiamo di proporre soluzioni più interessanti [sorride]
Questo è interessante, il marketing di solito è una delle forze più conservatrici nelle aziende
[Martino Coffa] Non per forza, ma devi riuscire ad argomentare come loro vorrebbero sentirselo dire, parlare di costo per persona che visualizza, per contatto.
Per il vostro lavoro mi sembrano metriche senza senso
[Martino Coffa] Assolutamente incoerenti, ma su cui il marketing si basa tutt’ora, fanno fatica a capire come potrebbero sfruttare quel che facciamo a loro favore, che cosa vuol dire la comunicazione online… Per loro spesso risulta spesso come un investimento puro, mettere soldi per fare una cosa bella, ma fine a se stessa. In realtà può avere un seguito eccome.
Anzi ne ha di più
[Martino Coffa] Spesso e volentieri ha molta più risonanza se spinto dai loro canali online che fisicamente nella situazione in cui è avvenuto. La quantità di gente che può fruirne è molto più elevata.
Passo indietro: facciamo finta che io sia un’agenzia, invece di Oculus cosa mi proporreste?
[Martino Coffa] Esperienze vere, in ambienti immersivi, senza occhiali, che possano essere vissute da più persone insieme, in condivisione. Il limite di Oculus è che sei tu da solo insieme a quello che vedi lì dentro. Mentre se fai delle esperienze in ambienti che sono veri l’impatto è diverso e può essere più condiviso, fotografato…
Se pensiamo a Oculus, alla realtà virtuale di oggi pensiamo a quella foto, con Mark Zuckerberg che passeggia in mezzo a una folla con gli occhi coperti da un headset di Samsung: c’è un limite che queste tecnologie non dovrebbero superare?
[Martino Coffa] Ogni tecnologia si ritorce contro noi stessi, l’umanità sa farsi male con qualsiasi cosa gli dai in mano. Già adesso rispetto a cinquant’anni fa, ci facciamo male con internet, siamo davanti a un computer quasi 24 ore al giorno, le esperienze vengono da uno schermo che ci illumina la faccia; se c’era un limite, ormai l’abbiamo già superato da un pezzo. Basta ricordarsi che esiste un mondo là fuori, e fare una passeggiata, una partita con gli amici, vedersi di persona: ha ancora un senso.
[Andrea Ceccarelli] Se una cosa migliora la tua vita, perché no, io non vedo limiti. Se ci pensi bene non è che la naturale prosecuzione dell’occhiale, dell’appendicectomia…
Su questo sono molto d’accordo. Però, quando si parla di cervello umano ci sono altri valori in gioco
[Martino Coffa] Come al solito c’è lo yin e lo yang in ogni tecnologia. Intervenire sul cervello umano per comandare protesi, per far tornare a camminare persone disabili per esempio, o ridare la vista dei non vedenti, o l’utilizzo di arti per persone paralizzate, sostituendo gli impulsi nervosi con impulsi elettrici mandati dal cervello direttamente ai muscoli…
Il computer, l’uomo, la tecnologia. Sembra che Recipient riesca ad avere trovato la terza via per usare le macchine, senza che le macchine usino l’uomo. Che è forse il grande rischio di quest’epoca e dei decenni a venire.
Non siete molti nel vostro settore: con chi è nel vostro ambiente vi sentite più competitor o amici?
[Martino Coffa] Si tenta di non essere competitor con nessuno, noi siamo molto aperti, usiamo software open source, creiamo software che rilasciamo anche open source, si cerca sempre di creare uno scambio, perché tanto non si diventa molto ricchi con questo lavoro, o diciamo che fai molta fatica! La rivalità non ha senso.
Se dovessi dare un consiglio a un ragazzino di 14 anni che vuole far quel che fate voi, che gli diresti?
Perseverare. Perseverare. Perseverare. Se vuoi fare queste cose ti viene anche naturale, noi tutti siamo andati avanti, abbiamo sbattuto la testa, e siamo andati avanti ancora. Diventa automatico. Non è semplice. È un ambiente in cui a volte dipende tutto dalle persone con cui ti devi confrontare, a volte è un ambiente sottovalutato in termini di quantità di tempi di lavoro, di ingegno che ci vuole per costruire determinate cose che realizziamo. Per cui la parte difficile è quando qualcuno facendo il gesto di muovere le mani su una tastiera ti dice “eh ma che ci vuole” e magari sono quaranta ore di lavoro, come minimo. La gente che realmente capisce e si impegna a capire il nostro lavoro è veramente una percentuale molto piccola. Ti scontri spesso con questa esigenza di dover combattere con chi si dovrebbe fidare di te e dovresti accompagnare in un percorso all’interno di una esperienza con tecnologia.
Che cosa farete domani?
[Martino Coffa] Sarò qui come tutti gli altri giorni… un domani più metaforico, chi lo sa a un certo punto, abiterò su Marte probabilmente.
[Andrea] L’obiettivo è continuare a fare quello che faccio, essere soddisfatto, riprendere ad alzare l’asticella. Perché sennò è sempre tutto uguale.