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Il logo con cui Roma si candida alle Olimpiadi 2024 è brutto. Ma non è questo il punto

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Ciclicamente il plot si ripete: viene presentato un logo di una qualche istituzione, a volte palesemente orribile, e la comunità creativa si infiamma gridando allo scandalo. Per qualche giorno sui social si alternano invettive stizzite e pipponi sulle regole d’oro per disegnare un logo in maniera corretta, e poi tutto passa nel dimenticatoio, per ripetersi nella medesima maniera qualche settimana più tardi. Per questo ci chiediamo se sia davvero un problema che il logo di Roma Candidate City sia parecchio brutto.

Intanto una premessa: Il logo della candidatura di una città ha un ruolo tecnico, serve a identificarla in un contesto ristretto. È infatti il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) a scegliere quale città ospiterà i Giochi. E, con tutto il bene che vogliamo al brand design, non è che viene scelta una città piuttosto che un’altra perché ha il logo bello. Quando poi una città viene scelta, allora le cose cambiano: il logo dell’edizione Olimpica assume un valore commerciale, essendo rivolto ad un pubblico mondiale e dovendo incontrare il gusto di persone e sponsor. E a quel punto dev’essere disegnato bene davvero.

 

Il logo incriminato

 

Prendiamo come esempio una recente esperienza italiana: Torino 2006. Il logo della candidatura, realizzato da Italdesign, ebbe il solo merito di essere stato disegnato prima dell’esplosione di Facebook, evitando così le sorti toccate al corrispettivo romano. Ma il logo che conta, quello dei giochi, venne realizzato a seguito di un concorso internazionale vinto dallo studio Husmann-Benincasa (incredibile constatare come oggi su Behance, il social network dei creativi, il progetto abbia ottenuto meno di 35 like…), a nostro parere uno dei loghi olimpici più riusciti delle ultime edizioni. Il progetto poi, si sviluppò nel pluripremiato “look of the city” sviluppato da Italo Lupi-Migliore-Servetto, con cui l’Italia fece un’ottima figura davanti al mondo.

Alla faccia di chi dice che qui facciamo solo e sempre schifo. Il grande fraintendimento sul logo di Roma, quindi, è legato agli obiettivi. A cosa serve questo logo? Perché è stato disegnato così? A chi è rivolto? La questione è più sottile. Spesso chi si occupa di graphic design confonde (o vuole confondere) due questioni strettamente interconnesse eppure differenti: gli obiettivi dell’art direction e quelli del (graphic) design. L’una si concentra sul messaggio, l’altro sul processo che trasforma il messaggio in forma. Da un punto di vista di art direction, infatti, il logo di Roma è corretto: identifica la città che rappresenta in modo semplice, utilizzando il suo monumento più conosciuto a livello internazionale. Identifica l’Italia con i due codici cromatici universalmente riconosciuti: il tricolore e l’azzurro utilizzato nelle divise delle nostre squadre nazionali. STOP.

 

Il logo di Torino 2006

 

È sul lato del design che fa acqua da tutte le parti, ma purtroppo per la finalità per cui questo logo è stato disegnato, ha poca importanza. Quello che a nostro modo di vedere ha molta importanza, invece, è l’approccio nei confronti del lavoro creativo da parte dei creativi stessi. Passiamo senza soluzione di continuità tra un atteggiamento egoriferito che ci porta a imballare i social con tutti i nostri lavori, lavorini e lavoretti, e un’invidia cieca che genera commenti passivo-aggressivi tesi a screditare qualsiasi cosa non provenga dal nostro mouse, come se riconoscere il valore nel lavoro degli altri lo togliesse a noi.

In questo maniera non si alimenta il dibattito disciplinare, né tanto meno si lavora alla costruzione di una cultura del progetto condivisa. Ci piacerebbe invece vedere invasi i nostri social network da progetti ben riusciti, esperienze italiane di qualità (è facile parlar bene di uno che sta dall’altra parte del mondo e con cui non ti senti in competizione), perché in fin dei conti anche nel nostro paese sono in molti a lavorare molto bene.

 

Michele Bortolami e Tommaso Delmastro, soci fondatori e alla direzione creativa di Undesign dal 2003, e coordinatori del corso triennale di graphic design allo IED di Torino. Lavorando sull’interrelazione tra design e branding hanno dato vita ad un sistema di progettazione strategica definito Undesign, come il nome scelto per la loro agenzia. Aiutano aziende, enti ed editori a costruire e migliorare la propria comunicazione, offline e online. 

Tommaso Delmastro e Michele Bortolami

Soci fondatori e alla direzione creativa di Undesign dal 2003, e coordinatori del corso triennale di graphic design allo IED di Torino. Lavorando sull'interrelazione tra design e branding hanno dato vita ad un sistema di progettazione strategica definito Undesign, come il nome scelto per la loro agenzia. Aiutano aziende, enti ed editori a costruire e migliorare la propria comunicazione, offline e online

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