Il prossimo 11 marzo sarà inaugurata a Siponto, una frazione del comune di Manfredonia, l’importate basilica di Edoardo Tresoldi. L’artista romano, noto per riuscire a realizzare grandi strutture trasparenti attraverso intricati reticolati di fili metallici, ha ricostruito interamente una basilica paleocristiana partendo dalla pianta della sua struttura originale.
È il risultato di un’interessante collaborazione tra la Sovrintendenza Archeologica della Puglia ed il segretariato del MiBact. La base della chiesa era stata rinvenuta intorno agli anni ’30 e, per più di sessantanni, è stato l’oggetto di studio di archeologi e di esperti dell’arte. Quando si è trattato di istituire un progetto per preservare queste rovine – ed un prezioso mosaico presente al loro interno – l’idea geniale è stata quella di coinvolgere Tresoldi in una nuova opera che, in qualche modo, riportasse in vita la struttura della chiesa e, allo stesso tempo, ne proteggesse la base. È un cortocircuito fantastico tra l’antico e il modernissimo.
“Mi ero già confrontato con alcuni lavori legati all’architettura” – commenta Tresoldi – “ma rientravano più in un ambito scultoreo: erano sculture che usavano il linguaggio dell’architettura. Questa, invece, non solo è un’architettura vera, di dimensioni reali, ma si rapporta ad un discorso dedicato alla storia e all’antico. Oltre ad un lavoro sullo spazio, è stato fatto un lavoro sul tempo”.
Guarda la gallery Edoardo Tresoldi Edoardo Tresoldi Edoardo Tresoldi Edoardo Tresoldi+10
Come ha ricostruito il progetto originale della basilica?
C’erano varie ipotesi di come poteva essere la chiesa. Ho fatto degli studi insieme a degli storici dell’arte e a degli archeologi e, comparando altre chiese paleocristiane del periodo, abbiamo definito quali potevano essere le dimensioni, le altezze e tutti i rapporti interni. Detta in maniera facile: il periodo paleocristiano era un periodo molto tecnico, c’erano dei rapporti e delle misure ricorrenti. Partiti dalla pianta e da alcuni elementi rinvenuti dagli scavi, siamo riusciti ad ottenere un’ipotesi molto verosimile di quello che poteva essere la chiesa in quell’epoca.
Sei un appassionato di architettura paleocristiana?
Direi di no (ride). La mia preparazione sulla storia dell’arte dell’architettura è sempre stata abbastanza vaga, sono arrivato qui da vergine. Avevo già fatto dei lavori in alcune chiese inglesi ma erano di altri periodi. È stato interessante, però, rapportarmi con un’architettura che ha caratterizzato quel luogo e quel periodo storico: è come se si fosse creato un collegamento tra me e tutti gli altri architetti che, nella storia, hanno lavorato in quello spazio e su quelle forme. Quando ti trovi a lavorare su un’intervento così site specific devi relazionarti con l’ambiente circostante. Mi piace essere influenzato dal posto dove lavoro, mi piace che ci siano delle cose che non scelgo io ma che le sceglie lo spazio al posto mio.
Spesso descrivi le tue opere con un approccio decisamente emotivo, è stata una componente importante anche per questo progetto?
Assolutamente. Prima ho dovuto studiare dei sistemi che, tecnicamente, mi permettessero di arrivare a quelle altezze. Uno studio di questo tipo non lascia grandi spazi alle emozioni ma, poi, superata quella fase, ho potuto cambiare e rielaborare il tutto in base alle relazioni e ai dialoghi che si creavano direttamente sul luogo. La mia tendenza come artista è, da sempre, legata ad un approccio poetico e di dialogo. Alla fine le mie non sono mai state architetture funzionali: se progetto una copertura, ad esempio, va vista più come un disegno trasparente nello spazio, non copre davvero le persone. L’aspetto emotivo, l’approccio quasi da scultore, è fondamentale ed è quello che più mi interessa.
Quanto è durato l’intero progetto?
All’incirca cinque mesi, siamo partiti ad inizio ottobre e l’inaugurazione è tra pochi giorni.
Qual è stato il momento più difficile di questo lavoro?
È stato un progetto fatto di grandi entusiasmi, nasceva come un’enorme sfida. Tutti i giorni ti svegliavi con questa voglia infinita di fare le cose. Lo studio tecnico iniziale, però, è stato piuttosto stressante: non avendo mai fatto un’architettura così grande, completamente costruita in rete metallica, ho dovuto inventare un sistema di tenuta. Progetti simili non sono stati mai fatti prima e, di conseguenza, lavoravo costantemente senza la certezza di riuscirci davvero. Passavo le notti a sognarmi la chiesa che si accartocciava, per dire. Poi abbiamo trovato il sistema e tutto è diventato più facile. È stato un momento di stress e di grande tensione ma è stata anche una parte molto bella, forse la più stimolante di tutto il progetto.