Un breve tributo ai 10 dipinti più macabri, più inquietanti e più sanguinolenti della storia della pittura.
Ognuno di questi quadri ha una storia che vale la pena di esser letta, se vi piace restare svegli la notte. [via]
La morte di Marat – Edvard Munch
Nel 1907, il travagliato pittore ed incisore norvegese Edvard Munch creò un’ interpretazione delirante del celebre delitto, ambientandolo in una camera da letto. Una figura femminile nuda che rappresenta Charlotte Corday, dà all’opera uno strano tono sessuale, pieno di vulnerabilità e di vergogna. Le lenzuola insanguinate e toni screziati di cadavere di Marat (soffriva di una malattia della pelle debilitante) aggiungono un realismo raccapricciante ed un’energia frenetica che manca nelle versioni precedenti (su tutte, quella di Jacques-Louis David). Il dipinto è un’allegoria fin troppo personale. Munch si sentì tradito dall’ ex amante, Tulla Larsen, che lo abbandonò quando egli divenne sempre più disturbato, ferendosi in una sparatoria accidentale.
Studi anatomici – Théodore Géricault
Il pioniere del romanticismo francese Théodore Géricault è meglio conosciuto per il dipinto “La zattera della Medusa”, nel quale sono raffigurati i superstiti di un naufragio avvenuto realmente, che tentano di farsi notare da una nave all’orizzonte. L’incidente in sé fu devastante (quelli alla deriva ricorsero al cannibalismo e solo 15 su 147 ce la fecero). Esso diventò uno scandalo di dominio pubblico a causa di un capitano inetto che abbandonò equipaggio e passeggeri, e un tentativo di copertura da parte di funzionari politici. Sperando di lanciare la sua carriera, Géricault mise a dipingere le conseguenze dell’incidente con dedizione ossessiva. I suoi studi per l’opera finale si basarono su interviste con i sopravvissuti, modelli in scala della zattera, gite a all’obitorio e per gli ospedali. Prese in prestito resti umani accumulando una raccolta inquietante di parti del corpo in putrefazione. I vicini non ne gradirono l’odore. La dipinto finale causò una polemica nel 1819, durante la sua prima esposizione al Salone di Parigi. Tuttavia, la maggior parte dei suoi studi su quei cadaveri in decomposizione sono rimasti nel suo studio fino alla sua morte.
Figura con la carne – Francis Bacon
Già dalla loro prima apparizione nel 1950, i ritratti grotteschi di Papa Innocenzo X dipinti da Francis Bacon, sono stati un argomento affascinante. Bacon ha creato più di 45 varianti del “Ritratto di Innocenzo X” di Diego Velázquez (1650), distorcendo e “ingabbiando”, il Papa. In “Figura con carne”, il Papa è seduto tra due metà di una carcassa di mucca (simile a morbose ali d’angelo), reminiscenza dei dipinti Vanitas del 17 ° secolo, in cui oscure nature morte simboleggiavano i pericoli dei piaceri terreni. Jonathan Jones ha scritto dell’artista: “Bacon era un ateo molto palese. Forse questo sembra irrilevante, ma se visiti una collezione di dipinti dei grandi maestri” – come al Palazzo Doria Pamphilj a Roma, dove si trova il ritratto di Velázquez di Papa Innocenzo X, che ha ossessionato Bacon – “vedrai che la pittura a olio e la religione sono molto intime, legate. Tutte quelle Madonne, tutte quelle Papi. Bacon ha preso il cuore spirituale di quell’alta cultura e l’ha accoltellato a morte.”
Dante e Virgilio all’Inferno – William-Adolphe Bouguereau
Fiamme dell’inferno, zolfo, ed eterna dannazione regnano nella Divina Commedia di Dante. Il prolifico pittore tradizionalista francese William-Adolphe Bouguereau catturò una scena agghiacciante nell’ottavo cerchio dell’inferno (pieno di “falsificatori” e “falsari”). Nel dipinto, Dante, il narratore, con Virgilio, il poeta romano che lo guida attraverso il viaggio, guardano una lotta tra dannati – in questo caso, l’eretico e alchimista Capocchio, che viene morso sul collo da Gianni Schicchi, che cerca di rivendicare l’eredità di un uomo morto. Ma lasciamo che le parole di Dante parlano da sole: “Queste genti sipercoteano a vicenda non solo con le mani, ma con la testa, col petto, e coi piedi, troncandosi reciprocamente coi denti le membra a brano a brano.”
Giuditta che decapita Oloferne – Artemisia Gentileschi
Dipingere la decapitazione del generale assiro Oloferne da parte della vedova Giuditta era di gran moda tra il 15 ° e il 16 ° secolo. La raffigurazione di Caravaggio divenne lo standard, venerato per la sua drammaticità, il naturalismo, e un’ambivalente Giuditta (che era devota a Dio, ma giocò la parte di seduttrice per uccidere il nemico del suo popolo). La versione della pittrice Artemisia Gentileschi (1611-1612) parla degli stessi eventi ma mostra una lotta più violenta e fisica. La sua Giuditta è più determinata nel tagliare la testa di Oloferne. Gentileschi utilizzò sè stessa come modella per l’eroina biblica e il suo mentore, Agostino Tassi, come modello per Oloferne. Nel 1612, Tassi fu condannato per aver stuprato l’artista.
Il trionfo della morte – Pieter Bruegel il Vecchio
Un esercito di scheletri distrugge la vita e devasta la terra ne “Il Trionfo della Morte”, appeso esattamente di fronte a “Il Giardino delle Delizie del Prado” di Hieronymus Bosch. Il critico d’arte Richard B. Woodward scrive:
“Il più piccolo (nelle dimensioni) capolavoro di Bruegel ha un messaggio triste. Non c’è scampo dal flagello della guerra. Gli uomini e le donne nel paesaggio cosparso dal fuoco, cercano di respingere gli scagnozzi della morte con la spada e la lancia. Ma sono in inferiorità numerica, ed i loro sforzi si rivelano inutili. Non solo la morte è inevitabile e spietata (ad ogni livello della società, alta o bassa che sia), ma la morte è anche perversamente creativa. La varietà di torture in serbo per la razza umana in tempo di guerra è infinita. L’allucinazione è intensa e ricca di azione come in Bosch, ma il sangue freddo della violenza non lascia spazio nemmeno ad un tocco di stravaganza.”
Saturno che divora uno dei suoi figli – Francisco Goya
Francisco Goya dipinse scene di guerra e di stravolgimenti storici contemporanei, ma nei suoi ultimi anni, il suo lavoro diventò sempre più scuro. Goya a malapena sopravvissuto alla malattia, perse fiducia nel governo spagnolo. Incanalò il suo malcontento e la sua paura nelle Pitture Nere. Dipinte direttamente sulle pareti di casa sua tra il 1819 e il 1823, le 14 opere del Goya sono inquietanti e riflettono il suo tumulto interiore. “Saturno che divora uno dei suoi figli” raffigura il mito greco morboso su Saturno. Il Titano temeva i suoi figli si potessero ribellare, così li mangiava dopo la nascita.
Dragone rosso – William Blake
Il cinema ci ha fatto impaurire con gli straordinari acquerelli di William Blake (Manhunter, Red Dragon), raffiguranti il Grande Drago Rosso nelle varie scene dal Libro dell’Apocalisse (Bibbia). Ma le opere di Blake ed il racconto biblico sono già abbastanza terrificanti per conto proprio:
“Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato.”
Suicidio – Edouard Manet
Édouard Manet diventò famoso al Salone di Parigi nel 1865, quando mostrò la sua versione della “Venere di Urbino” di Tiziano, raffigurata bella come una cortigiana. Con questo triste dipinto che ritrae un suicidio, eseguito tra il 1877 e il 1881, senza darci alcun contesto (eroico, blasfemo o altro), Manet invece ci mostra il corpo accasciato di un uomo, un pozza di sangue su un letto, e non uno schizzo di sangue sul muro dietro di lui. Un mistero macabro che ha afflitto i critici e gli storici, soprattutto perché c’è una grande speculazione sulla reale identità dell’uomo. Alcuni suggeriscono che sia l’ex assistente di Manet che si suicidò nello studio dell’artista un decennio prima. Altri credono che egli rappresenti Émile Zola – che in realtà è morto di avvelenamento da monossido di carbonio.
Il corpo di Cristo morto nella tomba – Hans Holbein il Giovane
Dipinto con un realismo sorprendente tra 1520-1522, questa rappresentazione di un Cristo emaciato con carne in putrefazione e le ferite aperte, sarebbe stato scioccante per quel periodo. Hans Holbein ha discusso quel lavoro sul sito della Tate Gallery:
“Gli storici dell’arte non sanno quale posto Holbein avesse in mente per il suo Corpo del Cristo morto nel sepolcro. Una predella di un altare? Un lavoro free-standing? Un pezzo fatto per adattarsi ad una nicchia sepolcrale? Ma resta il fatto che le dimensioni estremamente insolite del dipinto (30,5 x 200 cm) lo rendono un oggetto unico nella storia dell’iconografia. Ai miei occhi almeno, perché entrando in questo lavoro è come entrare in una bara per vedere cosa sta accadendo all’interno. Cioè nulla, a parte un corpo morto, un cadavere – immobile per tutta l’eternità. Ma date un’occhiata al suo viso. Questo cadavere non sembra morto. La bocca aperta, gli occhi lo stesso, potremmo essere in grado di sentire l’ultimo respiro; si può intuire la presenza dello Spirito Santo. Lo spettatore vede Cristo vedere: lui potrebbe anche percepire ciò che la morte ha in serbo, perché lui sta fissando il cielo, mentre la sua anima probabilmente c’è già. Nessuno si è preso la briga di chiudergli la bocca e gli occhi. Oppure Holbein vuole dirci che, anche nella morte, Cristo appare ancora e parla. Forse.”