Dopo venerdì notte, dopo l’ansia e i tweet, è arrivato il momento delle foto dai luoghi degli attentati di Parigi. Foto che in alcuni casi sono state pubblicate dai quotidiani. Alcuni di questi hanno deciso di mettere in prima pagina foto di ragazzi morti quella notte. Altri no, probabilmente con l’intenzione di dare più un’idea di speranza che di fine.
Quello della rappresentazione della morte sui media non è un tema nuovo e la percezione da parte di pubblico e addetti ai lavori è cambiata nel corso dei decenni. Negli anni ’40, per esempio, non c’erano problemi a stampare foto di uomini uccisi a colpi di pistola, ma nemmeno di ragazze suicide o di vittime di incidenti stradali. Forse non si aveva ancora pienamente chiara la potenza del mezzo. O forse si credeva semplicemente di riportare la realtà così come veniva vista dal fotografo, quindi come era. Oggi invece molte persone si sentono urtate da un’immagine di questo tipo: è difficile capirne il motivo, anche perché allo stesso tempo Studio Aperto continua a giocare su quello spazio di nessuno fatto di chiazze di sangue sulla strada e scarpe spaiate lungo la ferrovia, decidendo di scegliere l’approccio più macabro e meno sincero.
Il World Press Photo è un premio dedicato al fotogiornalismo e ogni anno vengono premiate numerose foto di morti ammazzati, naturale conseguenza di guerre e disastri naturali che vengono fotografati e raccontati. I giudici scelgono le foto dal 1955 e qualcuno potrebbe domandare se c’è ancora bisogno di guardare dritto negli occhi un uomo fucilato, quando ne hai già visti altri prima di lui. La domanda è se tutta questa visibilità non possa portare ad un leggero cinismo, ad una sorta di abitudine. Spesso sono gli stessi fotogiornalisti a farsi queste domande, come sottolinea Christoph Bangert nel suo libro “War Porn”: “Sfrutto i miei soggetti? È moralmente giustificabile lavorare come fotografo in zone di guerra e in aree di catastrofi? Perché siamo tutti così attratti dalle immagini che rappresentano la miseria di qualcun altro? Sto producendo della “pornografia di guerra”?” Da treccani.it, il termine pornografia (che deriva, mediante il francese pornographie, dal grecoπόρνη, “prostituta”, e γραϕία, “scritto”) sta a indicare la trattazione oppure la rappresentazione, attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli di soggetti o immagini osceni, effettuata allo scopo precipuo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.
Forse le fotografie non sono mai state il problema e non sono cambiate dalla guerra di Crimea nel 1854 quando le scattava Roger Fenton ad ora, scattate da Christoph Bangert in Afghanistan, Iraq e Gaza. Non sono un problema nemmeno quelle scattate qualche notte fa per le strade di Parigi. Non sono un problema se vengono pubblicate sui quotidiani, raccolte in cataloghi. Il problema rimane il perché, gli scopi che si vogliono raggiungere, le idee che si vogliono fare passare. Il problema sono le parole con cui si decide di accompagnarle, pubblicizzarle, condividerle (cit. Libero: “Bastardi Islamici”). Privandole della loro schiettezza ed investendole di significati populisti che nascondono (male) dei “motivi personali”.
Il passo successivo sarebbe spostare per un attimo l’attenzione sulle foto de “il giorno dopo”. Condivise sui social network si sono trovate cartelle di immagini scattate con l’idea di raccontare, appunto, il seguito: ieri tutti avete visto, ma oggi? Ve lo mostro io. Non è invadente, non è insensibile fotografare qualcuno che sta affrontando un lutto, che ha bisogno di intimità per ritrovare un senso? Richiama un po’ quella pornografia dell’orrore di cui si domanda Bangert: non è questa la miseria che ci attrae?