Filippo Minelli è una persona molto divertente. Ci siamo scritti un po’ per questa intervista, e ovviamente siamo finiti a parlare di cose sceme e a risponderci “ahahahahaha” innumerevoli volte. Volevo obbligarlo a dirmi tre cose di sé per integrare la parte di presentazione dell’artista con qualcosa di succulento. Filippo mi ha riposto: “Che sbatti, giuro che non risponderò mai!”.
Filippo Minelli è un artista contemporaneo, vive a Barcellona, ma spesso è in viaggio. Da sempre si interessa di architettura, politica, geografia e le combina utilizzando installazioni e performance e la fotografia gli dà una mano a documentare il modo in cui interviene sul paesaggio circostante, modificandolo, come nei progetti Contradictions, Google World, Archive, per citarne alcuni.
In Shapes / Silence la fotografia è protagonista e mezzo di documentazione. Le immagini che Filippo raccoglie sono legate a un immaginario incantato, dove splendidi paesaggi naturali sono modificati da sbuffi di colore che hanno il potere di aggiungere tensione al luogo. Come se non bastasse, il mondo di Minelli appare privo di uomini. Splendido e apocalittico.
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Com’è nato Shapes / Silence? L’hai cominciato nel 2009. Continui a lavorarci, vero? Credi finirà mai?
È il primo progetto che è nato in maniera veramente meditata: guardavo dei video di manifestazioni politiche e vedendo il fumo arrivare in scena e silenziare le urla (per soffocamento) e i rumori, ho avuto l’impressione che il fumo stesso fosse il silenzio. Allora mi sono messo a cercare posti che potessero enfatizzare questa impressione anche in altre persone, ho iniziato portando fumogeni in montagna durante le passeggiate, per capire se quel tipo di paesaggio poteva effettivamente aiutarmi. Sono passati molti anni e un sacco di prove, ma continuo a lavorarci – incredibilmente, visto che solitamente mi annoio di qualsiasi cosa faccio soprattutto se piace ad altri, e credo che il motivo sia l’interazione con la natura. Nessuna performance o shooting fotografico è mai come gli altri, perché pressione atmosferica, luce, vento e imprevisti modificano tutto; sono cose incontrollabili e rendono il tutto una vera sfida oltre che una visione fantastica. Non so se smetterò o meno: sono cose che succedono, credo.
Contro cosa stai protestando?
Non è una protesta, è un modo di riportare l’estetica della protesta a una dimensione interiore. Sono convinto che molte delle cose che ci fanno arrabbiare abbiano un fondamento profondo nelle nostre azioni sbagliate, e che quelli che identifichiamo come nemici semplicemente ne approfittano. Queste immagini, che alcuni percepiscono come pacifiche ma energiche, e altri come inquietanti, rappresentano bene una presenza invisibile ma radicale, come il silenzio appunto, o qualsiasi parallelismo sul subconscio o sulla mistica.
Diversi tuoi progetti hanno avuto grande successo: si è parlato molto di Contradictions e si parla moltissimo di Padania Classics. Ci sono lavori che con gli anni, i cambiamenti, le evoluzioni, perdono importanza per il loro stesso “padre”. Ti è capitata una cosa simile? Qual è il progetto che senti più tuo?
Come ti dicevo, mi annoio di tutto quello che faccio, mi interessa molto il potenziale delle idee non tanto la loro realizzazione, quindi capisco perfettamente ciò che intendi. Il progetto che sento più mio è sicuramente quello che non ho ancora completato: Across the Border. E’ una serie di performance partecipative fotografate e riprese in video in cui chiedo a persone incontrate a caso per il mondo di scegliere una parola che per qualche ragione connette idealmente il luogo in cui si trovano con un altro posto del pianeta, le parole vengono poi cucite su bandiere realizzate artigianalmente e possibilmente con tessuti locali, e sventolate durante queste mini performance per sottolineare l’importanza dei punti in comune e della condivisione più che quella dei confini completamente obsoleti degli stati nazionali.
Spiegami come nasce un tuo scatto.
Succede in tanti modi, prevalentemente viaggiando e cercando di raggiungere posti remoti o nascosti. Spesso porto con me materiali e apparecchiatura fotografica; quando non lo faccio segno luoghi e orari del giorno. Esco attrezzato per qualsiasi evenienza perché, come dicevo, in questo tipo di lavoro c’è poco da poter programmare, inquadratura compresa, ed è il suo bello: spesso lavoro a vuoto ma le poche volte in cui tutto si ferma per qualche attimo è una vera magia.
C’è un progetto fotografico, un libro o una mostra, che hai visto quest’anno guardando il quale hai seriamente pensato: “Perché non è venuto in mente a me?”
Ci sono un sacco di lavori o approcci che mi sono piaciuti, ho seguito il progetto instagram di Amalia Ulman sulla finzione dei social network, le architetture della resistenza in Ucraina di Sasha Kurmaz, le provocazioni femministe 2.0 di Arvida Byström, le installazioni temporanee di Brad Downey…. c’è un sacco di roba che mi piace, ci sono anche dei tizi che si fanno foto alle palle davanti a paesaggi stupendi, un bel progetto, anche se forse non sanno di essere artisti, ma forse non vorrei averlo fatto io; fra artisti o gente simile abbiamo già abbastanza ego, mettermi anche a fotografarmi le palle sarebbe troppo.