Federico Vespignani ha 28 anni, è nato a Venezia ed è un fotografo italiano: si occupa di tematiche sociali, diritti umani e questioni ambientali. È stato per esempio in Jamaica a documentare le comunità gay e transgender oppresse da una società intollerante e violenta, mentre uno dei suo ultimi lavori racconta la storia e le vita dei tiburoneros, i pescatori di squali di Cabo San Lazaro, in Messico.
Con Federico inauguriamo la serie Fotografi d’Italia, una serie su chi lavora in Italia con la fotografia e ha meno di trent’anni.
Quali sono le destinazioni dei tuoi lavori?
Le destinazioni in Italia sono poche, i settimanali che conosciamo tutti, con i giornali esteri ho lavorato molto di più. In questo periodo sto cercando di staccarmi un po’ dal filone documentaristico classico, sta diventando un po’ troppo autoreferenziale.
Dicevi di questa fotografia documentaristica da cui cerchi di staccarti…
Noi fotografi più giovani abbiamo la fortuna – e la sfortuna – di non relazionarci spesso con delle commissioni dirette. Per cui abbiamo più possibilità di sperimentare. Con questo ultimo lavoro, a Cabo San Lazaro, con i tiburoneros, ho cercato di dimenticare i canoni della fotografia documentaria e una descrizione didascalica di quello che sta avvenendo per lasciare più spazio alla mia percezione soggettiva. Ho capito che più che la fotografia per me era importante vivere la situazione con le persone, la fotografia in fondo era una scusa. Lavoravo con i pescatori, ero entrato completamente dentro la situazione: e quindi avevo anche questo punto di vista un po’ privilegiato, privilegiato perché i spesso i giornalisti non riuscivano a entrare.
Puoi raccontare di che situazione si tratta?
Sono comunità molto chiuse, non si fidano molto, soprattutto non amano gli ambientalisti. In quella parte del golfo si sta facendo pressione per creare zone protette, e dove hanno creato queste zone protette la conseguenza è stata sì la tutela dell’ambiente, ma anche la distruzione dell’economia di interi villaggi. Ricordiamoci che siamo in Messico, la gente poi cosa fa per vivere? Entra nella criminalità. Tanti ragazzi giovani, magari pescatori, valutano sempre l’idea di diventare sicari. Poi si trovano gli ambientalisti che arrivano lì e gli dicono “Sei un killer che uccidi squali”.
Come ti sei organizzato per il reportage sui tiburoneros?
Studiando molto bene quello che sarei andato a trovare, leggendo molto le testate locali, preparandomi per mesi. Non è come organizzare un viaggio turistico: tanti ragazzi credono di fare un reportage facendo un viaggio, è sbagliato come approccio. Prima di arrivare a fare una fotografia c’è un livello di preparazione molto alto. Devi avere molto rispetto per tutti e tutto quello che ti circonda, stare attento a come giudichi quel che vedi, con i tuoi occhi, che alla fine sono occidentali.
Questa preparazione dura mesi: poi quando uno arriva…
Uno si accorge che è tutto completamente diverso! Bisogna stare attenti a non farsi troppi castelli in aria. Quando sono arrivato in Messico dovevo incontrarmi con questa ngo, che lavorava nella Baia di Maddalena. Sorpresa: non c’erano. Sono arrivato in questo posto a 4 ore di macchina dal più vicino aeroporto e mi sono ritrovato praticamente in una favela da solo, con uno zaino e migliaia di euro di ottiche nello zaino. Davo un po’ nell’occhio.
Direi che è andata, sei vivo, a quel punto come hai cominciato?
La mattina mi alzavo e andavo a parlare con la gente.
Come si fa?
Non c’è una ricetta universale, devi affinare i sensi e provare a capire al volo con chi stai parlando, soprattutto se è una persona affabile o meno, perché c’è anche gente che non è affabile per niente. Ho avuto la fortuna di conoscere un pescatore – un testimone di Geova – ed è stato gentile, mi ha fatto conoscere Eric, che era un tiburonero. Gli ho spiegato cosa volevo fare, e lui mi ha detto che ne avrebbe parlato con il resto del gruppo. Il giorno dopo mi ha chiamato, mi hanno accompagnato in barca su un’isola che usavano come campo base. Mi avevano prestato tutto loro, abiti, coperte, dormivamo per terra.
E poi siete andati a caccia di squali, neanche a pesca
Sì è quasi una caccia, più che una pesca.
Come si svolge il lavoro di un tiburonero?
Lavorano 14/16 ore al giorno o di più, nel Pacifico. Il mare è grosso, per chi è abituato al Mediterraneo affrontare il Pacifico è un’esperienza forte.
La tua prima giornata di lavoro con loro?
Si prepara da mangiare per la giornata, soprattutto tortillas: già dal secondo giorno ero io il cuoco, per cui mi alzavo alle cinque del mattino. Si prepara tutto il materiale, si vanno a prendere le esche e galloni su galloni di benzina, perché si va fuori fino a 40 miglia. Non vedi niente, solo mare, l’unico modo per comunicare era una radio: in barche che sono delle barchette in vetroresina da sei metri, però con motori fuoribordo da 120 cavalli.
Come pescano i tiburoneros?
Creano dei sistemi con delle esche che mettono nell’oceano, sono come delle boe ancorate al fondo con dei sacchi di sabbia, e il fondale è a 600 metri. Ogni boa ha un cavo d’acciaio, cui rimane agganciato un pesce. Lo squalo arriva, morde l’esca: qualche volta rimane impigliato, qualche volta si libera. In ogni caso a quel punto devi ucciderlo.
Come si uccide uno squalo?
È una cosa molto violenta, li uccidono a botte in testa. Non usano fucili, hanno delle mazze da baseball in ferro e usano quelle. Cercano di tenerlo fermo, perché lo squalo ha una forza comunque immensa. In tutto questo ero in acqua: se c’era lo squalo mi mollavano un pochino più distante, mi buttavo, e nuotavo verso lo squalo. A quel punto fotografavo un po’ lo squalo prima che venisse ucciso.
Che squali erano?
Squali mako, squali blu, squali grigi e squali martello. Ma sono squali che non sono aggressivi, se ti agiti sono attirati, puoi ricordargli un pesce che si agita.
È più aggressivo l’uomo
In quelle acque sicuramente.
Quanti squali pescavano al giorno?
Con circa settanta esche, quando era un buon giorno prendevano una ventina di squali. La parte più pericolosa era il ritorno: quando il mare è molto agitato e la barca molto pesante basta che prendi male un’onda e vai sotto. Infatti il fratello di un amico tiburonero è morto, è stato trovato a 160 miglia dalla costa. Le distanze sono enormi e anche i gruppi di soccorsi devono coprire aree immense, oltre che piene di squali. Il Mare di Cortez – dall’altro lato della costa del Messico – è diverso perché pescano di notte: ma lì il pericolo vero sono le balene. Se passa e prende dentro le reti vai sotto, ti porta giù. Di notte è ancora più pericoloso.
I tiburoneros cacciavano solo squali?
Sì, solo squali: lo squalo viene mangiato, le pinne sono pregiate. Due anni fa il prezzo delle pinne di squalo era crollato per varie pressioni a livello internazionale, ma le pinne restano una prelibatezza nel mercato asiatico, coreano, in Giappone. Fanno la zuppa di pinne di squalo, non so, è come da noi il tartufo, una cosa che servi ai matrimoni.
Il resto dello squalo è tipo un pesce spada?
No, non è buono come lo spada, ma la carne di squalo è venduta comunque in tutto il Messico, lo mettono sotto sale. Anche la pelle viene usata.
È un povertà disperata o una povertà dignitosa?
No, è una povertà molto dignitosa. I pescatori di squali sono tra i pescatori più fortunati, guadagnano abbastanza bene. Durante le giornate è una situazione molto grezza, ma nelle loro case sono persone diverse. Tutto il giorno sporchi di sangue, poi a casa erano altre persone. Ho cercato di fare un omaggio a quello che sono loro, sono dei guerrieri secondo me, passano gran parte della loro vita lontano dalla famiglia, in questi posti abbandonati da Dio.
So che la musica occupa una parte importante della tua vita: che musica hai trovato in Messico?
Narco corridos, i canti messicani, che narrano le gesta dei narcotrafficanti. Tutto il giorno in barca, 14 ore in barca con i narco corridos, o i corridos. Pazzesco.
Quanto editing c’è nelle immagini finali dei tiburoneros?
L’editing è la cosa più importante di tutto. È il lavoro. Sono le parole con cui scrivi.
Il tuo lavoro in Messico; quanto è durato l’editing?
Ci ho messo tre mesi, avevo 5000 foto. In questa fase è molto importante il parere di un photo editor. Perdi la percezione. È importante avere una persona che osservi i tuoi lavori da fuori.
Quanto è importante per te l’attrezzatura?
Non sono un nerd dell’attrezzatura, penso che sia importante quello che uno ha in testa, chiaramente per affrontare situazioni così oscure se vuoi gestire il buio in una certa maniera, l’attrezzatura deve essere di alto livello: obiettivi luminosi, macchine che ti permettano di alzare gli iso senza ottenere un rumore disastroso. Poi a me il rumore non dà fastidio.
Dovessi scegliere un’ottica da tenerti e basta?
Un 35mm f1.4.
Fotografi tuoi coetanei italiani che ammiri, che fanno dei lavori che ti interessano?
Non sono molto dentro alla comunità dei fotografi italiani… comunque sì, ci sono tanti bravi fotografi, che stimo particolarmente. Cesura ha fatto delle cose interessanti, Giovanni Troilo, Luca Santese.