È difficile staccare gli occhi dalle reti delle installazioni di Edoardo Tresoldi: il cielo, il mare, vengono racchiusi dentro a un contorno delicato, come una figura umana o una cattedrale. L’orizzonte diventa essenza del corpo e le sue reti elettrosaldate formano immagini ma che rimandano all’infinito leopardiano. Perimetri fragili che dialogano con l’ambiente che li circonda, e che a loro volta si aprono alle emozioni dello spettatore.
Edoardo ha 28 anni, è di Cambiago, in provincia di Milano ed è considerato uno dei talenti della street art italiana. Si fa aiutare da una squadra in cui l’età media è 25 anni e piace perfino gli uomini grigi di Sovrintendenza ed Ente Paesaggistico, che hanno riconosciuto il valore delle sue opere. A lui sono state affidati luoghi importanti, come le installazioni alla Vigna di Leonardo a Milano e alla Basilica di Siponto a Manfredonia.
Sei partito dallo scultoreo per arrivare all’architettura, come hai unito le due cose?
Fin dall’inizio in cui lavoravo sullo scultoreo e quindi sul figurativo, tutto il mio studio ruotava intorno al rapporto fra uomo e spazio. La scultura quando rappresenta un uomo lo mette in connessione con l’ambiente circostante. Con una figura che rappresenta una determinata situazione emotiva o circostanza, l’osservatore è portato a vivere lo spazio in modo empatico con quella sensazione. Così sono arrivato a voler creare direttamente lo spazio, a raccontarlo attraverso l’architettura.
Alcuni ti incasellano nella street art, a me sembra un po’ limitante
Anche a me. Negli ultimi dieci anni c’è stata questa grossa ondata mediatica con la street art, non come era intesa all’origine, ma come enorme catino di arte urbana o di interventi fatti su spazi urbani. Ciò ha dato vita a festival ed ha permesso ad artisti di farsi conoscere. Il grande merito è stato quello di riaver avvicinato all’arte il fruitore medio, quello allontanato dall’elitarismo. Molti di questi festival si svolgono in paesini piccoli, nelle strade, nei luoghi della vita quotidiana, le persone hanno contatto diretto con l’artista e l’opera che, sostanzialmente, non ha una poetica complessa, come una pop art 2.0. I miei primi lavori sono stati al Mura Mura Festival a Pizzo Calabro e Oltre il muro a Sapri. Per le mie opere di taglia grande è stata una manna, è stato facile avere i permessi per mettere le sculture su, magari, un edificio pubblico.
Usi la tua personale tecnica della rete elettrosaldata: come si sviluppa il progetto di una tua statua?
Finita la scuola usavo la rete per modellare le strutture che poi avrei ricoperto con cartapesta o altro, specialmente nelle scenografie. È un mio studio, non me l’hanno insegnato, prima facevo molte attività legate alla pittura di ambienti. Inizio dalla scomposizione di una forma, arrivo a un cartamodello e da lì lo scolpisco a mano sulla rete.
Cosa ti interessa evocare nello spettatore?
Quando vedo un tramonto, un bel paesaggio certe volte mi sembra quasi di non poterlo trattenere. Nel momento in cui ci metto una statua in mezzo, ho la sensazione che sto guardando il tramonto attraverso quella figura, come se rimanessi imbrigliato nella relazione che c’è tra la statua e il tramonto. E un’immagine evocativa dell’uomo o della natura, in una luce o un contesto particolare, dà una finalità più forte e affascinante.
In queste immagini i limiti vengono abbattuti, c’è leggerezza e sostanza allo stesso tempo. La gente comune, non il critico, cosa ti dice delle tue opere?
Per esempio l’anno successivo dopo l’installazione del pescatore a Pizzo Calabro, mi arrivavano email di gente che mi raccontava del nonno, dei loro ricordi. Si era creata una connessione forte per cui la funzionalità di quel luogo era la riflessione. La frase che mi ripetevano era: Io di arte non ci capisco niente, però questa mi emoziona. Una bella soddisfazione, ho cominciato a studiare tardi e ho iniziato a lavorare su cose semplici, che potessero arrivare a tutti. L’amore, l’odio, la rabbia, tutto ciò che è emotivo, è un linguaggio universale, al di là dello spessore culturale di ognuno di noi.
Quanto tempo ci metti a realizzare le tue installazioni? E quanto resistono poi?
Per una figura in media conto due settimane. Quanto durano dipende dagli agenti atmosferici, quello su cui sto lavorando è renderle più permanenti possibili, per l’ultima abbiamo studiato il materiale, scegliendo un tipo di rete con una galvanizzazione che dovrebbe farla durare venti o trent’anni. Sto combattendo l’ossidazione (ride, ndr) e c’è un metodo, chiamato sistema galvanico, che prevede il passaggio di corrente all’interno del metallo, che così non si ossida.
Delle opere elettrificate continuamente?
Sì, ma non è come una lampadina in cui c’è un consumo, l’elettricità non si perde, l’attraversa. Potrebbe essere come il filo per i recinti delle mucche. Comunque lo stiamo ancora studiando.
Mi immagino stormi di uccelli fulminati sulle tue reti…
Ma figurati! Si tratterebbe di corrente a bassissimo voltaggio, studiata apposta per non fulminare alcun uccello.
Ho visto l’installazione ad Huntingdon, in Inghilterra, in occasione del Secret Garden Party, una cattedrale sospesa, impressionante
Ogni anno un curatore seleziona tre o quattro artisti internazionali contemporanei e quest’anno hanno chiamato me. Quello è un festival di musica e la tua opera passa un po’ in secondo piano. Ma l’arte ti permette anche di giocare, così, con quarantamila persone che arrivano, ho pensato che una chiesa di otto metri, in aria, dove metterti sotto per osservare il cielo, potesse essere un bel gioco. Il cielo inglese cambia continuamente, è una continua evoluzione di immagini… Come ti dicevo il contesto è metà dell’opera.
A Manfredonia il tuo ultimo lavoro è legato a uno scavo archeologico. A fine gennaio si inaugurerà la tua ricostruzione della basilica di Santa Maria Maggiore di Siponto…
Non sono stato chiamato per ricostruire la basilica, in questo progetto il Ministero dei Beni Culturali doveva creare la copertura per un mosaico paleocristiano. Il progetto è cambiato varie volte, finché l’architetto Longobardi ha visto i miei lavori e ha pensato, “Ma perché non fare un’installazione di arte contemporanea che dialoghi con l’antico?“. La mia idea era ricostruire esattamente gli ingombri della basilica di Siponto in modo da rompere la linea del tempo, e far percepire al fruitore quello che potevano essere gli ingombri, ma senza barriere reali. Creando un rapporto con il cambiamento della luce e l’ambiente circostante, gli alberi e l’altra basilica ancora in piedi. Per come sta venendo su sarà qualcosa di molto interessante.
Ho l’impressione che se io andassi a chiedere alla Sovrintendenza di costruire una basilica non mi darebbero le autorizzazioni…
La complessità del progetto è stato costruire una struttura in rete alta 15 metri. Siccome non è mai stata fatta una roba così, gli ingegneri non potevano certificare l’architettura, essendo un metodo costruttivo non canonico. Ci sono tre navate… il difficile è stato evitare le strutture di sostegno, anche perché una volta che metto uno scheletro, anche un solo palo, fisicamente perdo la magia dell’illusione, il fatto che uno non capisca come sta in piedi… All’inizio la cosa mi preoccupava parecchio, non ci ho dormito per svariate settimane.
C’erano i vecchietti che davano consigli sulla costruzione?
Purtroppo stavano lontano. La domanda che mi ripetevano era: “Ma poi come la ricopri?”. Resta quel senso di non finito, ma tutto quello che gli manca è sostanzialmente tutto quello che ha.