Si chiama CESTHA, acronimo che sta per Centro Sperimentale per la Tutela degli Habitat ed è una organizzazione no profit che si occupa di studi ambientali e salvaguardia delle specie a rischio, promuovendo una gestione sostenibile del mare, perché come disse Gandhi “Ci sono abbastanza risorse per soddisfare i bisogni di ogni uomo, ma non l’avidità di ogni uomo“. Questo gruppo di studiosi di biologia, ricercatori e appassionati di mare, salvano squali, tartarughe, razze, seppie, scorfani, aragoste, li curano e li rimettono in mare. Sembrano un po’ dei supereroi dell’Adriatico, pronti a convincere un pescatore che quei pesci siano troppo piccoli da vendere o poco buoni da mangiare e che sia meglio restituirli alla natura.
Abbiamo raggiunto Simone D’Acunto, direttore del centro di ricerca, per farci raccontare il loro lavoro.
Quanti siete in CESTHA e come siete finanziati?
In CESTHA lavorano 5 ricercatori fissi, più alcuni collaboratori occasionali a seconda dei progetti, in certi periodi eravamo in 9. Siamo finanziati attraverso l’esecuzione di progetti di ricerca e tutela ambientale che “agganciamo” ai fondi locali fino a quelli europei. Siamo un’associazione di professionisti (nel senso che è la nostra professione) e non ci avvaliamo di volontari. Non ci piace sfruttare la manodopera gratis solo perché le tartarughe piacciono a tutti.
E’ un lavoro a tempo pieno? Come è una vostra giornata di lavoro?
Sì! E’ un lavoro a tempo strapieno, vedi a che ora ti rispondo al PC! (ndr ride) Il bello è che non esiste una giornata uguale all’altra, una giornata standard varia dalle mansioni ordinarie del centro per chi è di turno in sede, che comprende alimentazione, cura e somministrazione delle terapie agli animali, alla nottata a bordo dei pescherecci per chi è impegnato su qualche progetto in mare.
Ci racconti un caso di salvataggio che vi ha particolarmente emozionato?
Te ne racconto due. Il trigone viola che abbiamo battezzato Sole, che era stato stupidamente preso a bastonate in spiaggia da un turista la scorsa estate e che siamo riusciti a salvare da condizioni critiche, ci sono voluti sei mesi di lunghe terapie e poi la tartaruga marina a cui abbiamo dato il nome Gaia Speed. Siamo riusciti a salvarla e guarirla da una gravissima polmonite questo inverno. Entrambe hanno avuto bisogno di lunghe cure e molteplici terapie, che vuol dire entrare nelle vasche a volte anche due volte al giorno. Le emozioni più grandi arrivano quando gli animali cominciano a stare meglio e iniziano a mangiare da soli, che è sempre un segno di ripresa e poi quando li rilasci nel loro ambiente naturale e li vedi scomparire dalla vista. Allora tutti gli sforzi, i sacrifici, i vestiti bagnati vengono ripagati. Sole è stata rilasciata a Gennaio, Gaia verrà rilasciata a fine estate probabilmente.
Quali sono le specie più colpite?
Tutte sono colpite purtroppo. Le tecniche di pesca sono tante e ognuna ha un bersaglio preciso, ma anche una specie bycatch differente, cioè una specie che viene catturata accidentalmente. In generale, però, possiamo dire che gli squali sono gli animali marini che se la passano peggio di tutti, sia perché sono oggetto di pesca mirata perché ce li mangiamo (palombo, spinarolo, smeriglio, verdesca, squalo volpe ecc), sia perché i pescatori sportivi spesso ne vanno a caccia come trofeo, ma soprattutto perché sono specie che si riproducono molto tardi, per cui spesso uccidiamo squali che non si sono ancora riprodotti, ergo, stiamo intaccando lo stock.
Dal vostro ruolo di osservatori, avete notato miglioramenti nell’ambiente marino con la pausa forzata delle attività durante la quarantena?
I miglioramenti probabilmente si vedranno tra alcuni mesi e forse l’anno prossimo. Comunque è sicuramente vero che arrestare il prelievo di animali generi degli effetti positivi sulle prossime generazioni, probabilmente gli animali hanno potuto riprodursi in pace in questi mesi.
Quali sono i comportamenti da seguire al mare per non inquinare e rispettare l’ambiente?
Guardare e non toccare è la regola di base. Vale per i bambini in spiaggia col retino e per i subacquei che si immergono. Poi raccogliere i rifiuti abbandonati, plastica compresa, aiuta sempre oltre a essere un gesto di civiltà, sia che ci si trovi al mare che in città. Il mare, infatti, inizia proprio nei tombini delle nostre città.
So che collaborate coi pescatori, ma vi capita mai di salvare animali contro la volontà dei pescatori?
Sì, capita (ndr Simone ride di gusto). Soprattutto quando si è imbarcati. il rapporto di fiducia che si crea è bilaterale tra il ricercatore il pescatore, siamo davvero bravi in questo e quindi si sa anche quanto si può osare a bordo. Per osare intendo buttare in mare di nascosto qualcosa che il pescatore avrebbe tenuto, consapevoli che anche se visti si riceve solo una flebile lamentela. Poi alle volte gli si compra anche qualche animale di pregio, si legga astici adulti, in modo da non intaccare il reddito della sua giornata e salvare comunque l’animale.
Per l’ambiente è più problematica la pesca o l’inquinamento?
Bella domanda. In realtà spesso le due cose viaggiano parallele e ognuna delle due agisce su un aspetto diverso della vita marina. Forse gli effetti della pesca si vedono in archi temporali più brevi, l’inquinamento alle volte è più subdolo e gli effetti si palesano solo quando è troppo tardi.
Una curiosità: siete vegetariani voi che salvate i pesci?
No, non occorre essere vegetariani per difendere l’ambiente. Crediamo che il giusto modo di fare le cose sia il compromesso e quindi ricerchiamo l’equilibrio tra l’attività di pesca e la sostenibilità. Ci potremmo definire consumatori consapevoli, nessuno di noi mangia e compra carne di squalo al supermercato, tutti mangiamo le cozze selvatiche di Marina di Ravenna e qualcuno mangia i cosiddetti pesci dimenticati, che sono sostenibili e non sovra sfruttati, come ad esempio i cefali che sono buonissimi!