James Glickenhaus ha 65 anni, vive vicino New York, è una leggenda tra i collezionisti e gli appassionati di supercar e ha almeno tre vite da raccontare. Gli stringo la mano, indossa una camicia azzurra con ricamato uno sponsor all’altezza del pettorale, porta pantaloni cargo e sneaker fluo visibili da un’altra galassia. È gentile; ma dicevamo delle tre vite.
Prima vita: regista e produttore cinematografico negli anni ottanta, dirige o produce film abbastanza pazzeschi come Maniac Cop – Poliziotto sadico, McBain con protagonista Christopher Walken, e Poliziotto in blue jeans e altri che se avete trent’anni e avuto un televisore in casa a 15 anni avete visto in seconda serata su Italia1.
A un certo punto molla il cinema e, seconda vita, diventa un guru di Wall Street, dove il padre operava da tempo con la Glickenhaus e Co.: quando il padre di Jim – un signore molto portato per l’attività intellettuale più bella del mondo: fare soldi – quasi centenario andò in pensione passò di mano qualcosa come 900 milioni di dollari.
Come conseguenza diretta di queste due redditizie attività James Glickenhaus arriva alla terza vita, perché è anche un collezionista d’auto. Non proprio auto da collezione qualsiasi però, o non solo, comunque uniche davvero. E soprattutto, non tenute sotto vetro: dice Jim che “not putting miles on your Ferrari is like not having sex with your girlfriend so she’ll be more desirable to her next boyfriend“, non vale neanche la pena di tradurlo no?
Ma prima dell’intervista, vediamo cosa c’è in garage da Jim.
Una delle dream car più iconiche di sempre, la Ferrari Modulo fu presentata nel 1970. Ne esiste un solo prototipo al mondo, era custodito fino a un annetto fa nel museo Pininfarina di Cambiano. Adesso è nel garage di Jim, che la sta riportando agli antichi splendori: “È un’icona, è una macchina, ma allo stesso non è una macchina… non è mai stata guidata, non è mai stata utilizzata, è arte, forse architettura, ma non è mai stata un’automobile marciante. Un collezionista puro direbbe ‘Non toccarla, chi sei per toccare quello che ha fatto Pininfarina?’, ma io penso che se non si può guidare, be’, allora non è un’automobile, è un’opera d’arte, ma non è un’automobile. Sono in contatto strettissimo con Pininfarina, alcuni dei tecnici che avevano lavorato alla Modulo ora lavorano con me, l’idea è di portarla a Torino e lasciarla al museo dell’Automobile“. Tempi per rivedere la Modulo? “Non ci siamo dati una deadline, ma dovremmo finire per primavera 2016“.
La Ferrari P 4/5, ne esiste un solo esemplare. È suo. Jim mi racconta che “Pininfarina stava cercando un cliente che commissionasse una one off, un esemplare unico. Ci incontrammo, accettai e mi chiese di tenere il segreto“. Perché Ferrari non l’avrebbe presa bene, se avesse saputo che qualcuno cercava di “migliorare” una sua macchina. La P 4/5 infatti nasce sulla base della Ferrari Enzo – oggi se ne trovano usate sui tre milioni di dollari – e, continua “Acquistai l’ultima disponibile, e la diedi a Pininfarina“. Requisiti? “Volevo una macchina che fosse un omaggio visivo alle Ferrari anni ’60, ma che si potesse guidare ogni giorno. E infatti a New York, la uso. Le macchine sono fatte per essere guidate“. E tornando al momento in cui il progetto fu svelato “Pensavo che Luca di Montezemolo si sarebbe arrabbiato moltissimo, invece quando la vide disse ‘Sì, è una Ferrari’“. E via di cavallino rampante sul cofano. Il progetto nel complesso è costato circa 4 milioni di dollari, quando chiedo a Jim se qualcuno si sia fatto avanti per comprargliela, spiega che “Sì, un membro della famiglia reale saudita. Ha offerto una cifra senza senso, 40 milioni di dollari“. Offerta gentilmente declinata.
Questa è una Lola T70. Fa parte del garage di Jim da moltissimi anni ormai, Jim l’ha comprata da Andy Warhol negli anni settanta. Sì, perché era una specie di auto aziendale della Factory “È stata la prima auto a utilizzare tecnologie aeronautiche, e sì, l’ho presa da Andy Warhol, o meglio, dal suo business manager, anche se ho conosciuto Warhol e sono passato dalla Factory negli anni settanta“. E aggiunge “Al tempo facevo il regista, la guidavo tranquillamente in giro per New York, mi è sempre piaciuta l’idea di auto da corsa, ma che puoi usare ogni giorno“. Ci ha infatti percorso 60mila miglia.
Questa invece è una Ford GT40 MkIV, e risiede felice nel garage di Jim. È l’emblema della sfida lanciata da Ford a Ferrari negli anni sessanta, quando, spiegata semplice, Ford cerca di comprarsi la Ferrari, sembra che tutto vada in porto e poi però partono i vaffanculo e le vendette. La vendetta è quella lì gialla, e Ford la serve mica tanto fredda a Ferrari. Vincendo alla 24 Ore di Le Mans. Mi spiega che “Ford si mise a costruire la GT e spese 600 milioni di dollari dell’epoca nel progetto, oggi penso sarebbero qualcosa come 6 miliardi di dollari“. Follia pura, ma erano altri anni. “Sul telaio non c’è scritto solo Made in Usa, ma proprio Made in Michigan, dove si trovano ancora oggi gli impianti Ford. Guidarla è facile, è comoda, le Ferrari dell’epoca sono caldissime, scomode, non vedi niente. Ma hanno un motore migliore“. Conclude spiegandomi che la GT40 tocca 233 mph: in pratica metti le ali e vola, sono circa 375 km/h. La GT40 si chiama così perché è alta 40 pollici, circa un metro.
Non solo anni settanta: nel garage di Jim infatti trova spazio anche una Ferrari 159 S Spyder Corsa del 1947. È probabilmente la prima Ferrari della storia a essere stata venduta, se volete saperne di più Jalopnik racconta i dettagli del restauro compiuto da Jim a partire dal 2004, quando l’acquistò per circa 700mila dollari. Ha un posto speciale nel cuore di Jim: “Mi piace che si possano togliere i parafanghi, road car and race car“.
E lei invece? Lei è una Ferrari 412P. “Era un’auto che Ferrari aveva destinato al suo dealer inglese, e la differenza con la 330 P3 ufficiale era una sola: la 412P era una macchina progettata per non vincere“. Spiegato per i profani: Ferrari corre con la 330 P3 ufficiale, ai clienti che vogliono correre vende invece la 412P, che è identica, ma ha i carburatori invece dell’iniezione, quindi vai più piano. “Arrivava sempre terza“. Povera.
Qui torniamo a oggi: con un’Alfa Romeo 8C Competizione. Bella vero? Prodotta in appena 1000 esemplari tra il 2007 e il 2010, 500 cabrio e 500 coupè, Jim ha voluto che la sua fosse la prima. La prima di quelle destinate al mercato US, di lei spiega “La uso ogni giorno, è l’auto quotidiana“. Se volete emulare Jim e andare in ufficio così serve un assegno dai 225mila euro a salire. Potremmo andare avanti molto, molto a lungo, se il garage di James Glickenhaus vi interessa Bloomberg ci ha fatto un documentario video molto ben fatto, oppure il sito di Jim.
Ma vediamo che cosa ci ha raccontato lui.
Hai ancora qualche sogno da realizzare? Sembra di no
Un grosso gruppo automobilistico decide di investire e sviluppiamo la nostra SCG003 in un’auto sportiva di produzione. Perché no? Ho incontrato un sacco di appassionati che amano quel che facciamo, ma non posso produrre un migliaio di SCG003 qui a Torino. Fare un’auto in serie non è come fare una one off, ci sono molte più regole, burocrazia, omologazioni da conseguire, crash test… questo è il mio sogno.
Com’è avere una collezione unica al mondo?
Se collezioni alla fine non ci pensi. Sono fortunato a potermele permettere, certo, perché in fondo se guidi una Ferrari GTO sai che ne hanno prodotte 39, mentre se guidi una Ferrari P4/5, ne esiste una sola.
Quando hai iniziato a collezionare?
Ho sempre amato le auto, mi piace come funzionano, mi piace smontarle, ripararle… e non appena ho avuto un po’ di soldi, scrivendo e dirigendo i miei primi film, come Exterminator (del 1980, qui il trailer) – e un po’ di soldi ne avevo – cominciai subito a comprare auto. Col passare degli anni sono riuscito a mettere da parte un po’ di quei soldi e a investirli, e hanno fruttato. Questa è la chiave di tutto: non dovresti prendere nulla che ti metta in difficoltà sul piano finanziario, come un’auto che tu sia costretto a vendere a un certo punto. Né dovresti comprare un’auto solo per farci una speculazione, ovvero rivenderla a breve a molto più di quanto l’avevi acquistata. Il bello è trovare qualcosa che ami, da guidare, da lasciare ai tuoi figli e ai tuoi nipoti.
So che hai cominciato da bambino ad amare le Ferrari
Sì, la concessionaria Ferrari US di Luigi Chinetti era a una decina di miglia da dove abitavo da bambino. Ci andavo in bicicletta. Era un bel po’ di strada! Ma col tempo diventammo amici, e mi faceva sedere dentro a quelle macchine. Da lui ho imparato una cosa: per quanto possa essere fantastica un’auto, la si può sempre migliorare.
Lezione imparata. Oltre a Chinetti, chi ti ha influenzato?
Carroll Shelby. Fu il primo in US a pensare “Ehi, ma cosa succederà se mettiamo un motore americano enorme dentro a un’auto europea”.
Prima in ascensore mi dicevi che non hai mai venduto una macchina. A parte un’eccezione: che auto era?
La prima auto che acquistai: una Ferrari 275 GTB gialla, l’ho guidata per 65mila miglia, sotto la pioggia o la neve, ma non avevo abbastanza soldi per tenerla all’epoca, per tenere la Ferrari e la Lola T70. Ecco perché l’ho venduta.
Mi dicevi che quella Lola T70 l’avevi acquistata da Andy Warhol…
Sì, ho conosciuto Andy Warhol negli anni sessanta alla Factory, conoscevo persone che avevano recitato nei suoi film, ma la persona che mi vendette la macchina era il suo business manager. Così andai a Long Island, e tornai a casa su una Lola T70.
Sei un collezionista ma non tieni le tue auto sotto vetro, anzi
Sì, per me è da pazzi prendere un’auto e poi non usarla, o usarla solo la domenica.
E se domani ti constringessero a tenere una sola macchina? Quale sceglieresti?
Penso che sceglierei quella che abbiamo costruito, la SCG003, è un pezzo di storia. O forse la Ferrari P4/5…
Hanno mai cercato di comprarti la P4/5?
Oh sì, mi hanno offerto delle somme senza senso. Come potrei venderla? C’era un tizio arabo, e sai, non capisci mai se queste offerte sono vere o no, ma questa lo era, che mi ha offerto 40 milioni di dollari.
Hai avuto tante vite: cosa hai imparato da Hollywood e da Wall Street che ti è tornato utile nel mondo del collezionismo?
Penso che mi abbiano insegnato a uscire dalla comfort zone, se lo fai, non smetti mai di imparare. E poi molto spesso è la vita, il destino, a farti capire quando è il momento di agire. Come quando lavoravo nel cinema. Ho fatto film per vent’anni, ho guadagnato bene, mi sono divertito, ma a un certo punto le cose stavano cambiando, e decisi di lasciare quando le cose mi andavano bene. Negli anni novanta eravamo entrati nell’epoca degli effetti speciali digitali, dei budget enormi… non mi interessava più, non lo volevo fare. Wall Street è stato sempre un family business, per tutta la mia vita, aveva cominciato mio padre a lavorarci. Ma la cosa più importante credo sia stata l’istruzione che ho avuto, un’educazione umanistica, e ho avuto la fortuna di viaggiare. Perché un conto è leggere della rivoluzione francese, un altro è andare a Versailles. Un conto è vedere in tv Il tormento e l’estasi, un conto è vedere il David di Michelangelo dal vivo. In fondo, quante volte hai visto il David su un libro? E la stessa cosa vale per la Monna Lisa… quello che ho sempre cercato di fare è stato spostarmi e imparare dalle persone che incontravo. La cosa migliore di New York è che raccoglie tutto il mondo: sono tutti lì.
Come mai a un certo punto hai mollato Hollywood?
Mi vedevo più come uno storyteller che come un regista, la cosa più importante per me era avere delle esperienze di vita, e poterle raccontare, raccontare una storia a chi andava al cinema, capisci? Sfortunatamente il mondo del cinema stava diventando un posto dove contavano molto più gli effetti speciali delle storie.