Geek
di Mattia Nesto 22 Agosto 2022

15 anni di BioShock

BioShock è uno di quei titoli che “fanno” una generazione videoludica: non lo abbiamo dimenticato.

Rapture…  Rapture…

BioShock è uno di quei videogiochi che non tergiversano neppure per un secondo. Infatti, la “creatura” ideata da quel funambolico (e discontinuo) artista di Ken Levine, presenta uno degli intro che, non ho timore a dirlo, più memorabili di tutta la storia videoludica. Prendendo a piene mani dall’immaginario e dalle opere di George Orwell e, soprattutto, Ayn Rand, siamo gettati, anche in maniera abbastanza rocambolesca, nella città di Rapture che, a conti fatti, è la grande protagonista del videogioco.

Infatti Rapture è quello che si potrebbe definire come “un sogno ben presto diventato un incubo”, ovvero una città subacquea, completamente autosufficiente, sorta seguendo due principi fondamentali: ovvero quelli di lasciare libero sfogo, senza alcun tipo di freno, alla creatività umana, senza vincoli morali che tengano e abbracciando una versione estrema se non proprio estremista della cosiddetta filosofia oggettivistica creata dalla stessa Rand. Ne viene fuori così una città che, dopo un iniziale momento di benessere e sviluppo, è ben presto caduta nel più completo caos: i “baroni” che ne controllano i diversi quartieri sono diventati delle sorti di veri e propri mostri che, come già citato in precedenza, completamente lasciati liberi, hanno portato alle estreme conseguenze la folle corsa alla ricerca.

Big Daddy e una little sister  Big Daddy e una little sister

Non volendo anticipare troppo della trama per chi, magari, non vi ha mai giocato la cosa davvero clamorosa di Bioshock (a conti fatti un buon fps che però, dal punto di vista del gameplay, anche quindici fa non faceva certamente gridare al miracolo) è, giustappunto, l’ambientazione e il concept, oltre che una direzione artistica incredibile. Rapture è come una città all’interno di una teca di vetro dove però, contrariamente ai souvenir, la vita è andata avanti nella sua forma più aberrante: girare per le sue vie, spesso stretti cunicoli intervallati da piccoli oblò che mostrano la fauna acquatica circostante, è un’emozione che raramente si prova in un videogioco. Quel senso di pesantezza, di essere braccato da qualcosa di oscuro e perverso è uno dei tratti distintivi di BioShock e, di gran lunga, una delle sue componenti più memorabili. Senza dimenticare dell’eccezionale colonna sonora, con brani jazz anni Venti, Trenta e Quaranta a punteggiare i nostri combattimenti.

E poi, come non citare i Big Daddy e le Little Sisters, ovvero, rispettivamente, i mitici palombari nerboruti e le enigmatiche bambine che saranno delle presenze fisse durante le nostre  peregrinazioni nella città sotterranea. Forza e dolcezza, inquietudine e disperazione, solitudine e desiderio: sono queste le pulsioni che muovono BioShock uno di quei titoli che, sul serio, hanno fatto crescere moltissimo il medium videoludico. Sia nei suoi alti, che nei suoi bassi.

Quindici anni dopo la sua uscita, insomma, non mi sono ancora stufato di parlarne, di pensarci e, perché no, ogni tanto, di (ri)tornare a Rapture City.

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