Inizia con una vecchia canzone di Dalida l’ultimo capitolo del James Bond di Daniel Craig. Una vecchia canzone, un ricordo d’infanzia che trasporta con sé l’angoscia della perdita della famiglia, e un segreto troppo grande non detto al proprio uomo. Lea Seydoux riemerge dall’acqua, ed è la prima delle tante riemersioni di un film che sta letteralmente a mollo nel ricordo. Bond si è ritirato, ma non sa che Madeleine, sua compagna di vita ormai, lo riporterà in azione involontariamente, per quel legame che la sua famiglia ha con la Spectre di Blofeld.
Lui è ancora vivo, nelle galere di Londra, attanagliato dal dolore, e purtroppo è ancora un Christopher Waltz al suo apice del macchiettismo. Tuttavia il male si aggira in altre zone. La prima parte di No Time To Die scorre in fretta e senza intoppi, mentre noi spettatori cerchiamo di districarci in questa struttura binaria in cui due buoni e due cattivi si contendono il posto di protagonisti. Dopo lo spottone fatto a Matera, con tanto di inseguimento sui sassi, con l’auto di Bond di nuovo a sfoggiare accessori dell’altro mondo, la canzone di Billie Eilish annuncia che le danze possono ufficialmente iniziare.
Mettere Cary Fukunaga a dirigere – e Phoebe Waller-Bridge a co-sceneggiare – un momento così cruciale della saga di Bond è stata una grande mossa. Lo stile morboso – e ormai strisciante nella noia – di Sam Mendes aveva fatto il suo tempo. Spectre non finiva mai, non procedeva, e quel Blofeld così moscio non rendeva nemmeno accattivante il finale. Il regista di True Detective ha preso in mano le redini di una barca da far attraccare definitivamente in un porto, e lo ha fatto nel migliore dei modi richiesti da un franchise che vive da decenni. Chi fa tv sa come fare un brodo lungo – in questo caso lunghissimo – senza farlo pesare, o quasi.
Finalmente il Bond di Craig ritrova quella punta di ironia che impedisce di farcelo odiare ancora una volta. Dopo un corrucciamento interiore che durava da anni, al buon James è servito avere sulle spalle delle responsabilità che si addicono a un essere umano per sembrare un personaggio finalmente dotato di profondità. Facile far struggere il proprio eroe circondandolo di parole, un narcotico eccellente. Più complesso è inserirlo in un vortice di cose che accadono, chiaramente tra un inseguimento e una sparatoria.
La spia simbolo del Patto Atlantico, simbolo del colonialismo ingiustificato degli Stati Uniti, si ritrova oggi a vedersi surclassare da una donna, la nuova agente 007. Si tratta solo di un numero d’altronde, come afferma l’ormai ex agente segreto. In realtà non ha mai rosicato così tanto. E vedere rosicare questo bastardo, mister licenza d’uccidere, simbolo di un occidente egemone, fa godere parecchio. Politicamente il Bond di No Time To Die è indecifrabile. Non si sa più bene per chi lavori, conteso tra CIA e MI6. Regna un’incertezza interessante, nello spettro di pensieri che per Bond non hanno mai incontrato i dubbi. L’epoca di Blofeld è chiusa, e i riferimenti manichei così chiari di un tempo sono sotto una coltre di fumo.
Oggi il villain si chiama Lyutsifer Safin, un Rami Malek silenzioso, con lo sguardo sempre perso nel vuoto, poco presente ma incisivo. Ha in mente il progetto di infettare milioni di persone con i nanobot, e qui il culo stratosferico per il tempismo è proprio da manuale, ma si sa che gli artisti di successo sono anche quelli che hanno fortuna. E forse in ottica di Covid è ancora più significativo il finire di Bond, infettato ed esploso, anche lui soggetto a una tremenda vulnerabilità. Uscito dalla storia in cui era nato, ma uscito anche dall’archetipo quasi mitico che lo ha sempre circondato. Ora è tempo di raccontare la sua storia, come fa Madeleine Swann alla figlia prima dei titoli di coda.
La speranza è che il racconto della vita del più famoso agente 007 servirà per non ricalcarne mai le orme, per rendersi conto che questi eroi sono vecchi e stracolmi di retaggi culturali malsani. Vedere No Time To Die come intrattenimento di altissima classe è una chiave buona. Perché la regia è certamente spettacolare e ricca di momenti ricercati per la composizione delle immagini, per la fotografia che gioca sui diversi luoghi di ambientazione. Nessuno ci vuole intortare col la storia del “Bond autoriale”, e questa onestà mette buon umore, e ci fa entrare del tutto in un film che sfiora le tre ore di durata. Il futuro della saga è incerto, ma non troppo. Chissà se si avrà voglia di compiere davvero una rivoluzione, snaturando tutto, assumendosi il rischio di dire che il tempo di morire è venuto anche per un modello di mondo deleterio. Non accadrà, tranquilli, possiamo tornare a divertirci con le sparatorie e le acrobazie in auto.