Il dramma farmacologico di Babyteeth

Nel suo debutto sul grande schermo Shannon Murphy traspone l’omonima pièce di Rita Kalnejais, dando vita a un dramma sulla malattia dai toni esagerati e ridondanti

Il debutto sul grande schermo di Shannon Murphy venne presentato due anni fa in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia come vero outsider. Film indie, tipico di vetrine come il Sundance o il Tiff, riuscì a portarsi anche a casa il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente. Quando un film tratta il tema della malattia c’è sempre dietro l’angolo il rischio del ricatto emotivo. Ma fortunatamente Babyteeth non cerca di strappare la lacrima a tutti i costi. Ha ben altre contorsioni strane al suo interno.

Milla è una studentessa australiana sedicenne, affetta da un cancro e con una famiglia a pezzi. Il padre è psichiatra e ha in terapia la moglie, ex pianista sempre impasticcata. La vita della giovane cambia un giorno grazie all’incontro fortuito con Moses, ragazzo borderline che vive in strada spacciando, dopo che la madre lo ha cacciato di casa. Nonostante sia molto più grande di Milla, lei si innamora gradualmente. La presenza del ragazzo, dapprima indigesta a causa di eventi spiacevoli, viene gradualmente accettata dai genitori. La salute della figlia non fa ben sperare, e vorrebbero farla felice nei pochi mesi che le restano. Comincia così una convivenza forzata fatta di alternanza di crisi e gioie. Il primo problema di Babyteeth è la struttura che la regista ha deciso di dargli. Il film, nonostante il naturalismo registico fatto di camera a mano e invasività sui corpi degli attori, viene diviso in capitoli, la cui presenza è connotata da titoli di diversi colori che campeggiano in sovrimpressione sulle inquadrature. Non è chiaro il motivo di questa scelta, dato che le suddivisioni sono eccessive e sostanzialmente inutili, andando solo a evidenziare scarsa capacità nel creare raccordi tra le scene. Solamente attraverso una scritta pastello che veniamo a conoscenza del fatto che Milla abbia iniziato il ciclo di chemioterapia. E diciamo che risolvere così un nodo narrativo fondamentale non pare molto lungimirante.

Un frame del film tratto dall’autore  Un frame del film tratto dall’autore

C’è un notevole squilibrio nella caratterizzazione dei personaggi, e manca chiarezza nel loro sviluppo. Innanzi tutto i coniugi Henry e Anna Finlay, genitori di Milla, vengono presentati nello studio di lui, durante il consueto appuntamento di analisi e sesso del martedì. Dopo un breve scambio di parole e qualche morso in comune dato a un panino molto grande, lo stanno già facendo appoggiati alla scrivania, con le briciole di pane ancora in bocca e il telefono che squilla. Ma questo è solo il primo atto del disgusto che i due provocano. Solo a vederli si percepisce un odore nauseabondo di farmaci masticati. Pieni di problemi, incapaci di gestire se stessi, arrivano a ricattare Moses – ovviamente con degli psicofarmaci – per portarlo a vivere in casa propria e far felice Milla. All’improvviso però sembrano riprendersi una parte di umanità, una volta che il destino della figlia sembra aver preso un corso irreversibile. In tutto questo il carattere della giovane non pare quasi per niente intaccato. Pare gestire meglio di tutti il vortice di situazioni che le girano attorno senza un senso, lucida in modo del tutto irreale. Viene persino da chiedersi se il suo amore per Moses sia effettivamente ricambiato, perché non si ha la certezza nemmeno di questo. Ciò che davvero funziona è l’interpretazione della giovanissima Eliza Scanlen – appena ventenne durante le riprese – al suo debutto cinematografico. Unico faro di un film perso nella confusione, prova a dare al suo personaggio uno spessore che manca nella sceneggiatura di Rita Kalnejais, attraverso piccoli momenti davvero toccanti, piani d’ascolto, e una scena finale che porta una nota onirica e di spensieratezza non scontata.

Intorno a questi quattro protagonisti quasi sconnessi tra loro si diramano altri personaggi secondari, più o meno riusciti. La vicina di casa dei Finlay, una signora incinta con un cane e un ghiacciolo sempre in mano, che instaura con Henry un flirt – scaturito dall’omonimia con il suo animale – di cui si perdono le tracce fino alla fine, quando verrà invitata senza spiegazione a una festa della famiglia. Più sopportabile è il maestro di musica di Milla Gidon, forse l’unico che riesce a capire qualcosa di una adolescente perduta. Ma anche la sua credibilità viene affossata dalla sua cotta per Anna. Tutto sembra tendere verso la telenovela. Una telenovela molto triste, o meglio un dramma farmacologico. Quello di Shannon Murphy è un debutto infelice ma non disastroso. Nonostante le forti incongruenze tra struttura e stile, durante le due ore di Babyteeth si denota un certo acume nel dirigere gli attori, sempre ben focalizzati dentro il dramma di una storia che si affossa su se stessa a causa di assurde estremizzazioni. Ad essere interessante è anche il gioco tentato coi colori, per uscire dai canoni fotografici piatti da cinema indie. Colori che si alternano e variano anche nelle parrucche usate da Milla. Tuttavia la variazione cromatica in lei rimane soltanto visiva. Ma forse con una sceneggiatura del genere sarebbe stato difficile per molti fare di meglio, chi può dirlo. Rimane poco chiaro il perché sia entrato nel concorso di Venezia76. Sarà mancanza di sensibilità, oppure mi si sarà atrofizzato il cuore davanti a questi esseri umani così fatti a pezzi.

 

 

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