Nomadland – Della solitudine del sogno americano

Tratto dall’omonimo libro di Jessica Bruder il film racconta la storia di Fern, una dei tanti nomadi del XXI secolo, lasciati senza niente dal disastro della Grande Recessione americana.

Da quattro anni a questa parte sono solito seguire in diretta la premiazione del Festival di Venezia pur non avendovi mai partecipato. Amo vedere insigniti di premi prestigiosi film che ancora non ho potuto vedere, mi appunto tutti i vincitori su un taccuino per ricordarmeli in futuro, ma sono spettatore totalmente privo di giudizio di una cerimonia nemmeno troppo esaltante. Tuttavia quando il 13 settembre scorso Cate Blanchett ha annunciato il Leone D’Oro a Nomadland mi sono sentito felice. Sentivo che questo premio – per niente inaspettato – sarebbe stato molto importante. Niente a che vedere con la rivoluzione di Joker sia ben chiaro, ma il fatto che la Disney abbia prodotto un film del genere a una regista indipendente come Chloé Zhao suona strano e speranzoso allo stesso tempo. Il colosso americano ci ha visto talmente lungo da affidarle la regia del prossimo capitolo della fase 4 del Marvel Cinematic Universe.

Lasciando da parte operazioni commerciali e progetti futuri, arriviamo al sodo. Nomadland è un film incredibile. Tratto dal libro omonimo di Jessica Bruder racconta di Fern, donna poco più che sessantenne, che in seguito alla morte del marito lascia per sempre la città di Empire e, dopo aver venduto quasi tutti i suoi affetti personali, si mette in viaggio sul suo van – la sua nuova casa – chiamato Avantguarde. La Grande Recessione ha spazzato via letteralmente tutto. Non c’è più lavoro. Fern vaga cercando piccole occupazioni per guadagnarsi da vivere, e trova posto per breve tempo in un centro di distribuzione di Amazon, fino a quando la collega Linda non le fa conoscere Bob Welles, un guru che dà assistenza comunitaria ai nomadi come lei.

In questo momento la sua vita prende una nuova piega, e il suo viaggio da fisico diventa sempre più metaforico. Fern conosce persone che stanno perennemente in viaggio, che sembrano aver fatto ormai da tempo i conti con il fatto che prima o poi dovremo lasciare tutto quello che ci circonda. Ascolta le parole di Swankie, che sta per percorrere per l’ultima volta le sue strade del cuore, prima di andarsene e non fare i conti con le conseguenza di una malattia che le rovinerebbe la fine di una vita soddisfacente. Fern è abituata fin troppo alle rotture brusche, e i cambi di direzione non sembrano metterla a disagio. Una sera è intorno a un fuoco, quella dopo in una sala da ballo triste, a ballare molto piano insieme a un certo Dave. Si ricorda di lui, le piace, e la cosa le dà quasi fastidio.

Un frame del film tratto dall’autore  Un frame del film tratto dall’autore

Con un’enorme dignità Fern sta sondando un nuovo terreno per riavere equilibrio. Non ha più voglia di accettare le chiacchiere medio borghesi che la circondano quando è costretta a far visita alla sorella per chiedere un prestito. Nella sua libertà faticosamente conquistata un guasto al van diventa un forte colpo che in qualche modo riesce a risolversi col minore dei mali: la riassunzione ad Amazon. Fern non vacilla nemmeno quando il compagno Dave torna alla vita sedentaria in seguito alla nascita del nipote. Seguendola nei suoi continui ritorni la vediamo nuovamente al campo di Bob Welles, per celebrare – di nuovo intorno al fuoco – un funerale quasi pagano a Swankie. Ma prima di perderla del tutto di vista la sua ultima tappa è a quel luogo dove tutto era cominciato: Empire, la vecchia casa, un saluto doveroso e definitivo a tutto quello che rappresenta il passato. D’ora in poi solo e soltanto la strada.

Una delle prime cose che salta all’occhio durante la visione di Nomadland è la saggezza con cui Cholé Zhao ha trattato il paesaggio. Senza romanticizzarlo in modo pacchiano o renderlo una trasposizione simbolica dell’emotività scenica, ha fatto la scelta saggia di usarlo come contenitore. Le strade, le distese più o meno erbose, le zone rocciose non accennano mai ad uscire dalla cornice dell’inquadratura, non aggrediscono il nostro occhio per farsi ammirare. Sono semplicemente il luogo dell’azione in cui gli unici protagonisti sono i nomadi che Fern incontra nel suo peregrinare. In questo modo il film è rimasto chiaro e pulito, accessibile ad un pubblico vastissimo – non a caso sarà disponibile dal 30 aprile su Disney+ – senza diventare un racconto naif naturalistico.

La coerenza stilistica è conseguenza del fatto che Chloé Zhao stia attivamente dietro ogni aspetto della produzione, dalla regia alla sceneggiatura, fino anche al montaggio, interamente curato da lei. Il personaggio di Fern, assente nel romanzo, nato ad hoc per amalgamare narrativamente l’inchiesta letteraria di Jessica Bruder, è stato creato e cucito addosso alla perfezione a Frances McDormand, nel suo continuo stato di grazia attoriale. Non la si vedeva sul grande schermo dal 2017, da quella Mildred Haynes incendiata dalla rabbia nel film di Martin McDonagh. Qual personaggio le valse il secondo Oscar della carriera, ma anche quest’anno la concorrenza pare non reggere molto il confronto con un’attrice che negli ultimi dieci anni non ha sbagliato un ruolo.

Nomadland è un grande film che non vuole spiegare nulla. Prova a mostrare, senza rinunciare agli artifici narrativi, un dolore collettivo, l’ultima grande caduta del sogno americano, che non ha generato un grande boato, ma un tonfo sordo e senza eco. In un’intervista di qualche tempo fa Chlé Zhao affermò di aver ricevuto una folgorazione guardando Happy Together, una delle più belle e vere rappresentazioni dell’eros di sempre. Se c’è qualcosa che può accomunare il capolavoro di Wong Kar-wai con lo stile della connazionale è proprio la crudezza del racconto che riesce a far dilagare la passione. Fern, Swankie, Bob, Dave, Linda. Tutti immersi nella solitudine, tutti in cerca del modo di riparare se stessi, scambiandosi a vicenda le rocce riscaldate dell’Ovest.

 

 

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