Per diversi giorni, subito dopo la cerimonia degli Oscar 2019, la stampa e i lettori di mezzo mondo hanno speculato sulla presunta relazione tra Lady Gaga e il co-protagonista in A Star is Born Bradley Cooper. Più che sulla relazione in sé, la pubblica gogna si è concentrata sul conseguente cat fight tra Germanotta e l’attuale compagna di Cooper, Irina Shayk, super modella di fama cosmica. Bradley è sparito alla svelta dall’equazione, e al centro del dibattito sono rimaste le donne, esposte in vetrina perché chiunque avesse modo di commentare su quale delle due fosse più degna di accaparrarsi l’uomo, basandosi essenzialmente sul loro aspetto. Si sono formati due schieramenti: quello del “Irina è più gnocca, figurati se è vero” e quello del “Gaga è meno gnocca, ma pur sempre gnocca”. Non ho controllato, ma giurerei che praticamente ogni singolo commento sulla vicenda contenesse un qualche riferimento all’aspetto fisico delle due. È sul terreno della bellezza che si è combattuta l’intera battaglia, non è la prima e nemmeno l’ultima volta, ma potrebbe finalmente averci spinto a considerare la possibilità che questa storia della bellezza ci sia davvero sfuggita di mano.
Per decenni abbiamo pensato che il problema con l’industria dell’apparenza fosse lo standard. Oscillando continuamente secondo il gusto e la moda del momento, l’omologazione del concetto di bellezza ha costruito un impero sulla vergogna, sul bisogno di sentirsi inclusi, rappresentati, amati, sull’odio verso i propri difetti, sul sacrificio e sulla competizione, soprattutto tra donne. Perché se due donne si scontrano, si battono a colpi di bellezza. Quando si insulta una donna, lo si fa attaccando il suo aspetto fisico, speculando sulla sua vita sessuale o con una combinazione delle due. Abbiamo pensato che l’ingiustizia fosse nel volerci tutte e tutti belli allo stesso modo, ma non abbiamo considerato se non marginalmente che il problema fosse nel volerci tutte e tutti belli.
Nel 2004, Dove fa la storia della pubblicità con la campagna Real Beauty, una serie di spot, cartelloni e iniziative a favore dell’inclusione di corpi non conformi e di donne vere nell’immaginario dei prodotti per la cura della persona. Già con il suo nome, la campagna Dove ha indicato il punto debole del suo approccio, lo stesso punto debole che tornerà spesso a invalidare anche le istanze del movimento Body Positive, soprattutto dopo l’incremento di visibilità avuto con i social network. Nata come necessità umana, sociale e politica di accettazione del proprio corpo, la body positivity è finita più volte a convalidare la stessa relazione tossica con l’aspetto fisico che avrebbe dovuto abbattere. Invece di affermare che ogni corpo ha diritto di esistere nella conformazione che più ritiene naturale, si afferma che ogni corpo è bello in qualsiasi conformazione assume. La bellezza rimane il termine di paragone con cui si giudica un corpo, perché quello sulle qualità estetiche di una persona è un giudizio, non è un parere, non è un’opinione o un consiglio, è una recensione.
Citando la stand up comedian Hannah Gatsby, “non avrei mai pensato che i miei studi in storia dell’arte mi sarebbero stati utili un giorno”, ma ci siamo. L’abolizione della bellezza come unità di misura per la percezione di un essere umano c’è già stata, più o meno un secolo fa. All’inizio del ‘900, le avanguardie storiche dell’arte visiva, soprattutto in pittura, erano stufe di rappresentare uomini e donne seguendo i limiti imposti dal gusto estetico dell’epoca. Erano stufi di mantenere le proporzioni, la grazia della figura umana, la delicatezza dei lineamenti e l’egemonia della piacevolezza. I corpi dei pittori espressionisti erano un riflesso di interiorità, quindi non necessariamente belli. Artisti come Edvard Munch, Egon Schiele, Oskar Kokoschka e Amedeo Modigliani avevano già tentato di salvarci dalla bellezza, di restituirci un’identità che fosse indipendente dalla confermazione della nostra faccia o del nostro corpo. Ironicamente, alcuni degli strumenti tecnologici che sembravano dover aprire l’Espressionismo al nazionalpopolare furono la causa della sua morte. La fotografia e il cinema si trasformarono alla svelta da supporti artistici a fenomeni commerciali e tornarono con entusiasmo alla celebrazione della bellezza come perno dell’esistenza. L’autoaffermazione vende meno del senso di inadeguatezza.
Naturalmente, la responsabilità di questo ritorno all’ossessione estetica non è né del cinema né della fotografia, ma neanche dell’industria della moda, come spesso si è erroneamente sostenuto. La responsabilità, come sempre, è nostra, degli esseri umani che il cinema, la fotografia e la moda li hanno inventati. A inizio ‘900, oltretutto, coloro che potevano permettersi di ribaltare un intero sistema di giudizio estetico erano essenzialmente uomini. Dopo un secolo, il panorama della lotta si è decisamente modificato e vede in prima fila, finalmente, le donne che sono il target primario della schiavitù della bellezza. Il problema è che sembra ancora sfuggire a tutti il nocciolo della questione: siamo obbligati a essere belli, in qualche modo. Possiamo avere varie forme, colori, consistenze, ma dobbiamo essere belli. Non possiamo permetterci di essere mediocri o non attraenti. Tutti i neonati sono belli, le donne grasse devono avere un bel viso, le donne anziane possono ancora essere piacenti. Sono cose che ripetiamo e ci vengono ripetute da tutta la vita, quindi abbiamo finito per crederci. Chiedere di ridefinire il concetto di bellezza è un cerotto che mettiamo su una ferita profonda. Chiedere di ridimensionare il peso della bellezza nella nostra vita potrebbe risparmiarci un sacco di scocciature. Almeno verremo insultate soltanto in base alle nostre abitudini sessuali.
Art © Egon Schiele