Netflix ha superato se stessa, è riuscita a isolare l’esemplare perfetto di serie tv da binge watching e ci è riuscita aggiungendo un nome di tutto rispetto al catalogo dei suoi personaggi borderline chic. Russian doll ha la velocità di fruizione di The End of the Fucking World e i personaggi mentalmente incasinati di Maniac, il tutto confezionato in 8 pratici episodi di circa mezzora dominati dal carisma di Natasha Lyonne, che insieme ad Amy Poehler e Leslye Headland è anche creatrice dello show. La meravigliosa Nicky di Orange Is The New Black qui è Nadia Vulvocov. Vulvocov? Non suona un po’ come vulva? Non sarebbe strano, visto che Russian Doll è ideata, prodotta, scritta e girata quasi interamente da donne.
In breve, Nadia si trova alla sua festa di compleanno, si diverte, beve, fuma un sacco e si porta a casa un tipo viscidissimo. Poco dopo, attraversa la strada e viene investita da un’auto. Muore e in qualche modo si trova nuovamente alla sua festa, di nuovo nel bagno di fronte allo specchio, prima di portarsi a casa il viscido. Prova ad andarsene, ma muore ancora, e ancora, e ancora. Cadendo dalle scale, finendo in una botola in strada, di infarto, mangiando pollo, di freddo e molto altro. Tentando di capirci qualcosa, Nadia cambia strategia in continuazione, chiede aiuto agli amici più fidati, e in uno dei loop incontra Alan, intrappolato come lei nell’eterno ritorno della propria morte, ma che lo affronta attenendosi alla più rigida delle scalette, nella speranza di uscire dall’incubo a suon di buone azioni e autocontrollo, più o meno l’opposto del caotico approccio strafottente di Nadia.
Russian Doll è uscita il giorno precedente al celeberrimo Giorno della Marmotta, quello raccontato con Bill Murray in Ricomincio da capo. Con il film ha in comune buona parte dell’ossatura narrativa e anche una certa parabola edificante di self improvement dettato dall’altuismo. Per non parlare del personaggio principale: burbero, cinico, tendenzialmente egoista, ma anche sofferente, smarrito. Nadia sembra uscita da una fan fiction su Io e Annie, con l’acume disincantato di Woody Allen e il guardaroba di Diane Keaton. I suoi splendidi e divertentissimi interventi sembrano fatti apposta per diventare meme per persone che amano lamentarsi della propria vita (ho una cartella apposita con almeno venti screenshot) e si sposano perfettamente con la recitazione di Lyonne, la sua voce roca, l’attitudine di chi vive la vita per l’ironia della situazione, ma che a tratti non sa più neanche perché. Nadia stessa si definisce “the girl with a death wish“, forse perché invece la sua migliore amica la paragona a uno scarafaggio, che può mangiare, sniffare, bere qualsiasi cosa e non morire mai. Magari ha paura di essere come uno degli strati della matrioska, coloratissima fuori ma vuota dentro.
Parlando esclusivamente della trama, in sostanza, il tasso di originalità di Russian Doll si riduce drasticamente, ma per fortuna il Diavolo sta nei dettagli. Ogni volta che Nadia torna dal mondo dei morti e riparte da capo ci sono una miriade di dettagli variabili ad attenderci. Ogni volta che cambia il corso della propria serata ci sono elementi che entrano in scena, che vengono evitati o che si rivelano fondamentali dopo decine di volte in cui rimanevano sullo sfondo. Oggetti spariscono (oh, guarda, quella cosa è svanita perché simboleggiava una parte negativa della sua vita) e poi ricompaiono (oh, no, avevo frainteso proprio, era qualcosa che aveva perso!), ma non si è mai troppo sicuri di averli interpretati nel modo corretto. C’è un modo corretto?
Ma parliamo del finale.
SPOILEEEEEEEEER
Il finale è dolce come un intero pacchetto di Big Babol mangiato in un colpo solo, ovvero troppo. All’inizio è piacevole, da overdose da zuccheri, ma poi arriva il down e iniziano a fare male i denti. Nadia e Alan si salvano a vicenda, intrecciano le proprie time line e si mettono al servizio dell’altro tirandolo fuori dall’abisso. Che teneri. Ma questo finale è davvero tutto miele e unicorni? Se non ci pensiamo troppo probabilmente sì, ma pensiamoci. Nadia ha degli evidenti complessi da abbandono causati dalla madre, dei sensi di colpa per la sua escalation autolesionista, problemi di intimità emotiva e dipendenze di varia natura. Alan è un ossessivo compulsivo che non sa gestire la fine della relazione con la fidanzata storica, tanto da preferire il suicidio a una lenta ricostruzione dell’autostima e dell’autonomia. È veramente una cosa positiva che questi due personaggi siano stati salvati dal deus ex machina che il loop delle morti ha rimediato loro? Cosa succede dopo? Tornano entrambi alle proprie vite disfunzionali e fanno perennemente affidamento su colui che è intervenuto nel momento del bisogno? Non sono forse diventati un idilliaco ritratto di codipendenza su più piani temporali? Il finale lieto potrebbe quindi non essere così lieto, dopo tutto. Ma è questione di prospettive. In generale, Russian Doll funziona, intrattiene, si lascia guardare con una facilità incredibile e propone spunti che vanno oltre l’immediato consumo. Per cogliere tutti i piccoli slittamenti, le sfumature e la completa psicologia dei suoi personaggi va vista più volte, e poi ancora, e ancora, e ancora.