Libri
di Marco Beltramelli 19 Giugno 2018

Bologna, le camminate, l’indipendenza e l’eredità di Jack Frusciante: abbiamo intervistato Enrico Brizzi

In occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo “Tu che sei di me la miglior parte” abbiamo intervistato Enrico Brizzi

Enrico Brizzi è diventato la voce della generazione X quando ha esordito nel 1994 con Jack Frusciante è uscito dal gruppo, un romanzo iconico dal quale è stato tratto il film con Stefano Accorsi e Violante Placido.  A quell’esordio folgorante sono succeduti  una quindicina di romanzi e racconti che lo hanno consacrato come uno degli scrittori più conosciuti del nostro paese. Tu che sei di me la miglior parte è il suo ultimo romanzo. Di seguito la nostra intervista.

Quando hai iniziato e come hai deciso di fare lo scrittore?
Tutto iniziò, ormai, molti anni fa. Si può dire sognassi di fare il narratore ma non so dirti con precisione quando presi questa decisione. Le cose successero tutte troppo di fretta e, ad un certo punto, mi ritrovai letteralmente catapultato in quest’ambiente. La prima realtà a credere in me fu la casa editrice indipendente anconetana Transeuropa, io cominciai a scrivere quando ancora frequentavo le superiori. Fino a quel momento, gli unici giudizi a cui ero abituato erano quelli del professore di lettere. All’interno del contesto editoriale, invece, vigeva una situazione molto più costruttiva. Sorgevano anche delle rivalità, certamente, ma ci si confrontava costantemente, ho così avuto modo di osservare scrittori più esperti del sottoscritto e la possibilità di incontrare tanti ragazzi più anziani che mi hanno preso sotto la loro ala protettrice. La situazione dell’editoria indipendente ricordava più un contesto musicale che un salotto buono, ricordava le polverose sale prove dei gruppi punk underground. Quando cominciai a presentare le prime “cartelle” di quello che sarebbe poi diventato “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” iniziarono le prime trasferte marchigiane. La Transeuropa era una casa editrice ma, fisicamente, era ubicata in un appartamento. Le frequentazioni più entusiasmanti erano quelle delle notti nei fine settimana. L’appartamento si riempiva di nomi che per me erano mitologici, nomi che avevano già pubblicato in antologia. Si parlava di libri, certamente, ma si discuteva anche di musica, di cinema e di teatro, si studiavano le possibilità espressive di ogni forma narrativa. Ancora prima che decidere di fare lo scrittore decisi di entrare di far parte dell’ambiente narrativo perché mi piaceva stare lì, lo trovavo stimolante.

https://www.youtube.com/watch?v=NZeh2_34-ps

Nonostante il successo, sei sempre rimasto legato a questo concetto dell’indipendenza
Jack frusciante è uscito dal gruppo” è un libro edito con delle pretese nulle. La prima tiratura fu di solo 200 copie. Figuratevi che era distribuito solamente a Bologna, la mia città, ed Ancona, la città del mio editore. Quando qualche amico di Milano mi chiedeva una copia dovevo tenergliela da parte e spedirgliela. All’inizio era così, All’inizio andavo ad attaccare i volantini del mio libro per i portici con la colla. La mia massima ambizione era veder calare la pila di libri esposta alla Feltrinelli delle Due Torri così che i miei nemici non potessero ridere di me. E i miei nemici erano delle antipatie liceali, per dire… Le cose andarono un po’ meglio, ma non potevo certo immaginarmi che nel giro di un anno mi sarei ritrovato al Virgin Mega Store di Parigi per presentare l’edizione del mio libro in francese. Pensare che così tanta gente si sia spostata dal capo opposto della città, abbia preso dei mezzi solamente per potermi incontrare mi gratifica, ma è una situazione che -se mantieni un minimo di mentalità indipendente- può anche spaventarti tantissimo. Ero giovane e circondato da gente che non voleva sempre fare i miei interessi, me ne accorsi quando Cominciai a collezionare proposte per ristampare sempre lo stesso libro. Mi trovavo ad un bivio tra il diventare una celebrità o un narratore. Tra le due, la scelta più figa secondo me era la seconda. Ecco perché pensai fosse subito importante cambiare registro sin dal secondo libro, come un gruppo che stravolge le sonorità del suo secondo album, e, in un oceano di squali, lasciarmi guidare dalle figure degli scrittori che stimavo di più era l’unica via di uscita. Pier Vittorio Tondelli ha pubblicato un libro di esordio, “Altri Libertini”, che era una raccolta di racconti punk della provincia cui segui un romanzo, nella sua forma più canonica, sulla naia che col primo non c’entrava nulla.

Tutto questo, ovviamente, crea delle situazioni umane che non lasciano indifferenti, tantomeno a vent’anni quando si è tutto tranne che monaci zen. Quindi, ti colpisce enormemente che la ragazza che prima non ti filava ora ti cerca, ti colpisce enormemente che il tizio che consideravi un amico ora parla male di te, ti colpisce profondamente che, davanti a te in treno, un ragazzo legga il tuo libro ma non abbia la minima idea di chi sia l’autore. La domanda che mi rivolgono oggi è “ ti pesa avere avuto un esordio così esorbitante?” ma la sua forma primordiale era “ti ha cambiato la vita?”. Una domanda un po’ del cazzo. Ovviamente mi ha cambiato la vita! Sapete bene come funziona il sistema dei media. Ho messo in conto di dovermi confrontare per sempre con il peso di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” come, del resto, ogni band che abbia composto una canzone che è rimasta nella storia dovrà confrontarsi con quel titolo per il resto della sua carriera. Io sono ancora fortunato, Cosa dovrebbe pensare Dylan ogni volta che attacca con Mr Tambourine o gli Stones con Satisfaction? È ovvio che chi esce con un disco, con un libro, chi cura delle mostre d’arte vorrebbe ricevere delle attenzioni, ma quante volte vale la pena scendere a compromessi per un po’ di visibilità?

Ci sono delle cose che vanno fatte con il proprio stile, altre semplicemente non ci interessano ed altre ancora che, letteralmente, ci ripudiano. Io mi reputo un grande ammiratore della bellezza femminile ma quando m’invitarono a fare il giudice a Miss Italia non andai. Il concetto di immorale è un concetto molto personale, io faccio le scelte sulla base della mia coscienza. Ho basato tutta la mia carriera su una filosofia molto semplice: se un giorno tutto questo dovesse finire non vorrei mai vergognarmi di quello che ho fatto.

Enrico Brizzi nella foto di Wikipedia wikipedia - Enrico Brizzi nella foto di Wikipedia

Hai appena citato Tondelli, suppongo non sarà il tuo unico riferimento?
Ho sempre letto molto ma non avevo mai avuto modo di incontrare un autore, l’unico scrittore con cui avevo un “gancio” era Stefano Benni, affezionato cliente del ristorante di mia zia. Da buon nerd collezionista riponevo tutti i suoi libri in un angolo particolare della mia libreria catalogandoli con cura. Leggevo i suoi romanzi e poi lasciavo i volumi al ristorante di mia zia in modo tale che, quando Benni passava, potesse autografarmeli. Ciò nonostante non lo vidi mai di persona. Un giorno lo incrocia in motorino in via Barberini quando ancora Jack Frusciante era soltanto un lontano pensiero. Ero in bicicletta, gridai “ Stefano Benni”, lui, pensando fossi il solito rompiscatole, si allontano accelerando. Non aveva fatto i conti con il mio entusiasmo. Alla fine di un “lungo” inseguimento lo raggiunsi ad un semaforo. Mentre pedalavo, non so per quale motivo, mi sembrava importantissimo raggiungerlo, ma una volta arrivato- forse anche annebbiato dallo sforzo- rimasi senza parole. “ Stefano Benni lei è il più grande scrittore italiano”. Mi rispose: “ Hai sbagliato persona ragazzo, non stai mica parlando con Aldo Busi”. E al verde ripartì.

Sei riuscito ad abituarti al successo?
Mi ci sono abituato eppure, sembra paradossale, riesce ancora a procurarmi delle situazioni imbarazzanti. Ho 4 figlie, la più grande si chiama Cloe, quando aveva 7 anni un giorno tornando dalle elementari mi disse che Salvatore, un suo compagno, le avevo chiesto un mio autografo per la madre in cambio del suo piatto di lasagne. Ho sperato non avesse accettato, ma mi rispose che a lei le lasagne piacevano. Non ho mai fatto leggere un mio libro alle mie figlie, non perché non voglia, lo troverei profondamente scorretto. Non sopportavo quando imponevano dei libri da leggere a me, non avrei mai potuto farlo. In un’intervista, Bruce Springsteen ha dichiarato di non aver mai fatto ascoltare i suoi album ai figli. Non li teneva nemmeno in casa, crescendo e vedendo costantemente il padre sui giornali ed in televisione ovviamente, se ne fecero una ragione.  Anche le mie bambine crescendo si sono rese conto che l’attività di loro padre era nota alle altre persone, il ricorre del nostro cognome tra gli scaffali delle librerie di casa non può non averle insospettite. La dedica alla mamma di Salvatore è stata un piacere, ma è anche capitato che le prof le chiedessero se fossero figlie “proprio di quel Brizzi lì?”.  All’inizio di quest’anno scolastico, il primo anno delle superiori, Cloe mi ha mandato un messaggio inaspettato scrivendomi che aveva appena finito di leggere “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e non riusciva a smettere di piangere. Le cose devono capitare così. Ovviamente ero felicissimo ma finsi un certo distacco. Lei non lo saprà mai, appena lo lessi mi misi letteralmente a piangere di gioia.

 

Eppure, dopo tutti questi anni di carriera, in un post su Facebook hai ammesso di essere particolarmente emozionato per l’uscita del tuo ultimo libro Tu che sei di me la miglior parte. Come mai?
Ogni libro comporta delle emozioni perché ogni libro ha una storia a sé, dei personaggi a cui finisci per affezionarti. Se non mi emozionassi, forse, questo lavoro non farebbe per me. I motivi per cui l’uscita di Tu che sei di me la miglior parte è stata particolarmente emozionante sono molteplici. Innanzitutto, ritornare su certi luoghi- con ritornare intendo scrivere, raccontare di determinati posti- in determinate vie è un’esperienza toccante. Il motivo per cui ho scritto questo libro era concludere un ciclo. Dopo 24 anni sono tornato a presentare un libro nella mia città, Bologna. L’altro giorno parlavo con le mie figlie in merito a come fossero i ragazzi ai miei tempi, anche se non ci credevano, risposi che avevamo i jeans strappati, le Adidas e i giubbotti di pelle esattamente come loro. La storia ha uno svolgimento olistico, ciclico, le mie bambine non hanno ancora la percezione storica per potersene accorgere. In questo libro hanno trovato soluzione tanti capitoli aperti e diversi. Infine ero molto emozionato perché, prima dell’edizione definitiva,  Tu che sei di me la miglior parte è stato riscritto 3 volte…

 

 

Le versioni precedenti erano molto differenti o era tutto frutto di un’insoddisfazione continua?
La prima aveva mille pagine… Non era stampabile. Cioè, tecnicamente lo era ma sicuramente avrebbe avuto una difficile rilegatura. La seconda era più corta e comprendeva dei cambiamenti di trama che sono poi rimasti fino all’edizione definitiva. Nella seconda versione ho trovato la sceneggiatura ma non ero ancora soddisfatto del “sound”. Per cui decisi di mantenere la stessa storia ma scriverla da capo, un’operazione molto faticosa ma anche liberatoria. Quando vieni completamente coinvolto dal racconto cerchi in tutti i modi di rendergli il giusto onore. È una questione personale e non dipende dal giudizio degli altri, un musicista a cui battono le mani dopo un concerto può comunque rendersi conto di aver suonato male.

Quindi scrivi ogni giorno?
Quando non sono in viaggio sì. In particolare, più vengo coinvolto dalla storia più l’orario della cena si posticipa, alle 20,00, poi alle 21, alle 23,00, finisco spesso per mangiare alle due di notte. La mattina spengo il cellulare -con il quale sarebbe impossibile rimanere concentrato per 12 ore- e tiro avanti fin che non vado a letto. Ovviamente, i tempi della scrittura devono concordare con i tempi del mondo. Non sono un mostro che passa il Natale a scrivere. Però sì, in generale, il mio tempo si divide tra le due attività che in assoluto mi rendono più felice, scrivere e camminare.

 

 

Era proprio il punto a cui volevo arrivare, come si conciliano la tua carriera da scrittore e la tua attività con gli Psicoatleti?
Camminare è il momento in cui riesco a dare ossigeno al cervello, fare chiarezza, il momento in cui posso prendere decisioni. Non ho mai visto gente ben disposta a prendere decisioni importanti, se non radicali, come in cammino. Conosco un ragazzo che, terminato il suo percorso scolastico, ha iniziato a lavorare nel settore petrolchimico. Iniziammo a preoccuparci, in viaggio rimase zitto per tre giorni alla fine dei quali chiamò il suo datore per dimettersi ed intraprendere una nuova carriera da tatuatore. In viaggio nascono amori con una spontaneità rara per la città così come ci si può finalmente rendere conto che è ora di troncare una storia. Quando il tuo unico fine è raggiungere una metà, percorre una distanza, le gambe imparano a marciare da sole lasciando la mente libera di agire indisturbatamente. Scrivere e camminare Sono due attività complementari perché una spiana la strada all’altra. Anche stagionalmente parlando, la primavera e l’estate sono ottime per passeggiare, l’autunno e l’inverno per scrivere. Dopo mesi di preoccupazioni, quando schiacci il tasto rosso “stampa” ti liberi letteralmente di un macigno. Cadi in uno stato di analfabetismo beato ed quello è il momento perfetto per partire.

Passare il tempo come lo potrebbe passare il nonno di tuo nonno che non aveva mai letto un libro, le prime volte, può anche sembrare un’esperienza strana. Tornare ad una vita un più naturale, seguire il tempo degli astri, sarebbe impossibile cenare di notte quando la mattina sorto il sole bisogna già avere lo zaino in spalla. I cellulari sono un’invenzione fantastica, tanto utile quanto diabolica. È anche per colpa loro se negli incontri al bar, nella frenetica vita cittadina, spesso non riusciamo a darci al 100% con le persone con le quali interloquiamo. In viaggio, la situazione è totalmente diversa, on the road – e con on the road intendo sulla strada- ci si proietta in tutt’altra dimensione. Compiendo il cammino di Santiago ho capito perché così tanti mendicanti, eremiti abitino lungo quella strada, perché la gente è molto più disposta ad accettarli, ad accogliergli, a donargli qualcosa da mangiare. Una vita totalmente dedita alla scrittura sarebbe malsana, porterebbe ad una morte precoce, così come una vita totalmente naturale finirebbe per portare alla pazzia. La libertà e poter scegliere di isolarsi periodicamente dalla società, non tagliare completamente i ponti.

Oltre alla musica, alle manifestazioni storiche e politiche, un altro elemento con cui caratterizzi, racconti, un determinato periodo sono gli oggetti, prendiamo come esempio lo zaino della Seven. C’è un elemento che rispecchia particolarmente la tua adolescenza?
Per me andava di moda essere ragazzino tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90. Scrivere di quel periodo vuol dire scrivere di un periodo della vita in cui sei ancora in grado di stupirti, di meravigliarti, il periodo nel quale le porte ti sono ancora tutte aperte e sta cominciando a formarsi la tua personalità. Fossi nato negli anni 30 non avrei avuto problemi a scrivere dei romanzi ambientati negli anni 50, così come potrei scrivere un romanzo ambientato ai giorni nostri ma difficilmente sarebbe un romanzo di formazione con protagonista un adolescente. Se dovessi scegliere un oggetto che non rappresenta solamente quel periodo della mia vita ma anche buona parte della mia letteratura sceglierei la bicicletta. La bicicletta era sinonimo di libertà. Fino ad una certa età, non sono sicuro che i miei genitori mi avrebbero lasciato prendere un treno o un aereo da solo per compiere determinati viaggi. Con la bici, l’avessi voluto, avrei potuto raggiungere i paesi più sperduti del Risiko. Ho posseduto diverse biciclette, la prima la ereditai da mio cugino, era una bici gialla di quelle con la sella lunga, sembrava una moto dei Chips. In seguito, optai per le bici con il telaio da corsa. Scrissi anche un libro sui “velocipedi”, “ In piedi sui pedali”, è stato uno dei miei pochi libri a vincere un riconoscimento letterario, il premio Bancarella Sport.

 

 

Bastogne è un romanzo ambientato a Nizza, hai scritto diversi racconti di viaggi in cui lo sfondo, inevitabilmente, rimane sfumato e di passaggio. Con Tu che sei di me la miglior parte sei tornato a Bologna. Jack Frusciante è l’esempio più lampante, ma anche Tre ragazzi immaginari è un romanzo di formazione ambientato nella tua città natale.
Perché Bologna è il mio ideal tipo di città. È la città delle prime sbronze, delle prime cotte, delle scuole superiori e dell’università, una città piccola ma con una componente universitaria preponderante dove un giovane aspirante scrittore non può che trovarsi bene. Non è solo la mia città, è la città a cui sono particolarmente legati alcuni periodi della mia vita, l’infanzia e l’adolescenza. Io vengo da una famiglia molto numerosa, ero l’unico ragazzino che d’estate andava in vacanza a Milano da una mia zia che si era trasferita per lavoro. I miei ricordi di Milano sono fondamentalmente legati alle estati, alle battaglie con le pistole ad acqua nei giardinetti di Aspromonte e Piola. L’altra città che mi ha profondamente colpito è Parigi, nella capitale francese passavo circa un mese all’anno per motivi lavorativi di mio padre.  È la città dove cominciai a muovere i primi passi da solo, una città enormemente più grande di Bologna, una città dove puoi trovare tutti i libri del mondo, la città dove sbocciò definitivamente il mio amore per i libri. Mio padre un giorno mi portò alla Bibliotheque Nationale con una delega, i bambini non potevano entrare, assicurandomi che in quella biblioteca avrei potuto ordinare qualsiasi libro fosse stato stampato in Francia, anche se esisteva in un’unica copia sperduta in un piccolo paese della Normandia, e l’avrei ricevuto in 2 giorni. Ci provammo subito, effettivamente era vero. Crescendo, Non smisi più di ordinare libri in quella biblioteca. Devo molto a mio padre. Uno dei pochi libri che mi consigliò fu “Esericizi di stile” di Queneau. Quando frequentavo il primo anno di università il mio professore di semiotica era Umberto Eco e uno dei testi fondamentali del suo corso era proprio questo, In un periodo in cui si tendono a rinnegare i valori dei genitori dovetti ricredermi.

Parigi la attraversai anche in diagonale a piedi, da capo a capo. Da una periferia all’altra passando per il centro, ti puoi imbattere in un’infinità di categorie umane: il violento, il gentile, l’elegante, il pazzo… Fondamentalmente, siamo tutte persone, al di là del modo di porsi, siamo tutte in cerca di amore o di qualcuno che ci voglia bene. Per me scrivere ed ascoltare la narrazione sono la stessa cosa, vivo in una situazione di rapimento totale, per me la narrazione è saper scorgere la storia nel mondo che ci circonda. Quando inizi a suonare la chitarra da ragazzo possiedi un unico modello. Crescendo, ed imparando a controllare lo strumento, ne collezionerai parecchi. Una Telecaster non suonerà mai come una Gibson Diavoletto ma, se un giorno dovessi scendere in garage e prendere in mano la mia prima chitarra, magari non sarei più abituato a suonarla, magari, – dopo tutti questi anni- avrò invece capito come farla esprimere al meglio. Non c’è nulla di premeditato, quel che conta è il gusto che si prova sul momento. Con Tu che sei di me la miglior parte ho un po’ rispolverato la mia prima chitarra. Il motivo per cui poi ci abbia trovato gusto è probabilmente materia per psicoterapeuti.

Raul e Tommy, i due adolescenti personaggi principali del tuo ultimo romanzo, per molti aspetti sono del tutto diversi. Sono l’espressione di due modelli di ragazzi differenti o li hai utilizzati per esprimere la dicotomia che è insita nell’animo di ogni persona?
In pratica è come rappresentare le stesse cose, se ci pensi, in ogni persona sono presenti più personalità. Fino ad una certa età tutte le porte sono ancora spalancate, da bambino puoi diventare qualsiasi cosa, un deputato come un criminale. La cultura, la famiglia sono tutti fattori che incidono ma non sono sufficienti. Se cresci in un quartiere medio di una città italiana negli anni 80 puo capitarti di dover andare in parrocchia la domenica e ritrovarti lo stesso giorno in strada a difendere la tua gente dai tifosi avversari che devastavano il centro. Non è giusto, semplicemente in quel momento lo ritenevo tale. La più grande paura di ogni adolescente è quella di non essere riconosciuto dai suoi pari, a volte ci si metteva alla prova in imprese poco fervide, forse anche senza senso, per il semplice motivo di dover dimostrare qualcosa. Raul è un po’ il cattivo maestro di Tommy, è il personaggio immediatamente più affascinate, quello più cinico più vissuto, in un primo momento, è lui ad attrarre l’attenzione di Ester. Ma, se ci pensi bene, nel libro come nella vita reale, a tutti è capitato di essere gli allievi e, in altri contesti -volontariamente o involontariamente- ricoprire il ruolo di buoni o cattivi maestri. Io diventando padre sono diventato naturalmente un maestro eppure non ho fatto nulla di straordinario se non crescere. E se maturando non si sopprime la fantasia a tutte queste componenti dell’animo umano si può dare un volto e una forma, farli sbizzarrire per il fantastico mondo dei romanzi.

 

Enrico Brizzi – Tu che sei di me la miglior parte

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