Probabilmente nel 2005 quando uscì per Playstation 2 Shadow of the Colossus, la critica videoludica era abbastanza sprovvista di termini adeguati per descrivere a fondo il titolo realizzato dal team ICO e capitanato da Fumito Ueda. Il gioco infatti, che prendeva a piene mani dal precedente ICO, sopratutto per le atmosfere evocative e per le meccaniche di gameplay, si caratterizzava per una quasi totale assenza di icone informative per il giocatore: nessuna barra vitale in alto a sinistra, nessun suggerimento luminoso che appariva su schermo e, soprattutto, totale assenza di interminabili spiegoni.
Tutta la narrazione era retta da pochissimi elementi: un giovane guerriero, Wander, che, animato da una fede incrollabile, deve salvare una giovane fanciulla. Accompagnato dalla fidata cavalla Agro, deve combattere contro giganteschi titani che punteggiavano la misteriosa mappa di gioco, ribattezzata, a giusta ragione, “The Forbidden Land”. Basta, c’è poco altro a condurre il giocatore in questa terra così misteriosa e aliena, talvolta silenziosa eppure così affascinante per i suoni, le nebbie e le diverse sfumature di luce che la caratterizzano.
Quel design così minimale eppure fortemente ispirato, anche grazie alle perfette e suggestive musiche firmate dal compositore Kow Otani, ha conquistato una fetta via via crescente di pubblico e, soprattutto, critica. Tanto è vero che, quando è stato annunciato il rifacimento ad opera di BluePoint Studios in molti hanno gridato al miracolo. Ma altrettanti hanno temuto ad un possibile scempio del concept originario. Tuttavia Shadow of the Colossus, reamake per Ps4, è, lo diciamo subito, un capolavoro sopratutto per il fatto di essere perfettamente nel solco dell’originale e, al contempo, avente una propria anima e una direzione artistica molto forte e autonoma. Un’opera d’arte da vivere con il controller fra le mani.
Il rifacimento è nettamente migliore rispetto all’originale dal punto di vista delle texture degli ambienti, per la cura dei dettagli (impressionanti gli stagni, che avrebbero fatto felice Monet) e per la ferrea risoluzione a 60 fotogrammi al secondo (con in più svariate possibilità di “Modalità cinema” e “Modalità foto” che aggiungono completezza e profondità al comparto grafico). Ma questo dato non è un fatto positivo a prescindere. Già perché l’estetica di casa Ueda è da sempre stata improntata alla filosofia “del togliere” più che dall’aggiungere, con una capacità praticamente unica di evocare mondi, sensazioni ed emozioni con pochissimi elementi.
Ecco che il lavoro di BluePoint, mirabile dal punto di vista oggettivo, potrebbe far storcere il naso a molti, soprattutto per per il fatto di discostarsi, anche in maniera netta e sotto vari aspetti, dall’originale. Tuttavia, lo ribadiamo, la personalità artistica di questo remake è qualcosa di solido e coraggioso, perché ridona linfa ad un titolo che stava ormai sentendo il peso degli anni. E che, soprattutto, non poteva più essere rigiocato a dovere sulle moderne console.
Tuttavia il tratto identificativo di Shadow of the Colossus sono, ovviamente, i colossi. Questi titanici avversari sono stati riproposti con tutto l’amore che meritavano. Sono infatti tremendamente ricolmi di pathos queste gigantesche creature che, nonostante le loro titaniche dimensioni (o forse proprio per esse), non spaventano quasi mai il giocatore/Wander. Anzi, portano più ad impietosirsi ed ad empatizzare con loro. Infatti le colossali creature non sono di per sé aggressive o particolarmente pericolose ma si triggerano solo quando il pg entra nel loro raggio di azione, solo quando il giocatore, di fatto, le disturba dal loro sonno/riposo plurisecolare. Proprio come noi che siamo buoni e cari ma che non ci dovete rompere i coglioni no?
E proprio qui sta la segreta grandezza di Shadow of the Colossus. Perché, come in un mito antico degno della storia di Talos, il titanico autonoma posto da Minosse a guardia dell’isola di Creta, così queste creature sono gigantesche quanto fragili: ognuna di esse infatti ha svariati punti deboli che il giocatore, e neppure il più abile, può scoprire in pochi minuti. Il gameplay quindi diviene una sorta di dolorosa mattanza dei giganti che debbono cadere e stramazzare al suolo. In questo modo potremo salvare dalla morte (anzi riportare alla vita) la fanciulla che amiamo. Seguendo la spietata legge della natura “dare la morta per poter proseguire la vita”.
Shadow of the Colossus non è il solito gioco in cui si ammazza-ammazza e si passa da un nemico all’altro. È invece un tormentato percorso attraverso le sofferenze altrui. E questi altrui, i colossi giustappunto, sono insospettabilmente simili a qualcuno che conosciamo molto bene. Sono infatti goffi, impacciati e quasi sempre impreparati di fronte a ciò che gli succede intorno. Mezzi tontoloni e mezzi in balia degli eventi. Già questi colossi sono dannatamente simili a noi: per questo motivo fa tanto male abbatterli uno dopo l’altro. Quindi asciughiamoci i lacrimoni e torniamo a soffrire di nuovo come ai bei tempi.