Amante delle incongruenze e del caso, Marco dal Bo è un giovane artista veneto che ora vive a El Hierro, nelle Isole Canarie. Ha uno stile irruente e altamente istintivo: le sue figure sono spesso inserite nel caos più totale, utilizzando un approccio punk e ottenendo un tipo di espressività davvero efficace. Ecco come ci descrive il suo lavoro.
Breve presentazione: chi sei, quanti anni hai, da dove vieni?
Mi chiamo Marco Dal Bo, sono nato nel 1985 a Vittorio Veneto (TV). Mi reputo un disegnatore-pittore e sono autodidatta. Solitamente disegno o dipingo di getto. Tutto inizia da un’idea, da un’emozione, molte volte da un’immagine o da una qualsiasi cosa che colpisce la mia attenzione. Il mio stile è sempre in continua apparente evoluzione; apparente perché di base da sempre rappresento la figura umana, sia dal punto di vista estetico che espressivo, più o meno nello stesso modo, quello che cambia è la storia che circonda queste figure.
Come il punk abbraccia l’amatoriale e l’incasinato, nei miei lavori è visibile quell’aria di essere buttati giù un po’ casualmente, sull’orlo dell’incoerenza o del collasso. Quello che caratterizza i miei lavori sono i processi creativi che si sviluppano uno dopo l’altro, susseguendosi a volte fluidamente a volte cancellandosi continuamente per poi ricominciare. Cerco di dare più spazio possibile al mio lato istintivo e al caso. Nell’ultimo periodo, da quando mi trovo a El Hierro, sto sviluppando maggiormente la relazione (pittorica) con la natura/vegetazione descrivendola in un modo nuovo e inserendola fortemente nei miei lavori.
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Dove sei adesso? Descrivi la stanza in cui ti trovi.
Ora mi trovo a El Hierro, la più piccola e meno turistica delle isole Canarie, e ci resterò per un po’ di mesi, credo. L’isola è una meraviglia ma piena di incongruenze. Adesso sono in un piccolo bar del villaggio in cui vivo. Vengo qui spesso, soprattutto di pomeriggio per una pausa caffè. Non è un vero e proprio bar, è perlopiù un chiosco con una terrazza coperta, un bancone e cinque-sei tavoli. È il luogo preferito degli anziani del paese, tutti i pomeriggi dalle quattro alle sette vengono qui a occupare il tempo giocando a domino o a carte. Io al contrario vengo qui perché mi rilasso e perché mi piace vedere queste persone che vivono una vita fuori dal tempo. Mi siedo sempre al bancone. Il titolare come sempre mi ha servito e subito è tornato al tavolo per continuare la partita di domino. I vecchietti sembrano tutti avere un’aria distinta, non urlano e imprecano come gli anziani cui sono abituato vedere nelle osterie venete. Dal bancone vedo tutto il chiosco. La terrazza è semplice, due colonne e un muretto a mezza altezza chiudono lo spazio difronte il bancone. I colori che spiccano sono il verde e il bianco, scelte perfette che bene si mescolano con la natura all’esterno caratterizzata da una miscela di verdi più o meno intensi, dalla vista dell’oceano in lontananza e da una luce bianca che abbaglia. A contrastare questi colori una serie di bandierine rosse e gialle appese al soffitto che si muovono col vento, rallegrano l’ambiente creando una sorta di aria di festa.
La prima cosa che hai disegnato e l’ultima.
Non ricordo la prima cosa che ho disegnato e a quanti anni, credo che come tutti ho iniziato scarabocchiando qua e là. Conservo ancora un disegno, datato 1989 (avevo 4 anni). Mia madre dice che l’ho fatto all’asilo. Si tratta di un disegno a pastelli su carta che ha come protagonista una sorta di Babbo Natale bambino, senza barba e con gli occhiali da sole, che sta portando la slitta trainata non dalle classiche renne, ma da un cavallo, anche quest’ultimo con gli occhiali da sole (mi sa che non ero capace di disegnare gli occhi). Il tutto è inserito in un paesaggio innevato con qualche pino qua e là. L’ultima cosa che ho disegnato è un piccolo ritratto di Enrico Mattei fatto a penna su carta. Si tratta di un lavoro per una serie di studi per un progetto futuro.
Hai dei rituali prima di metterti al lavoro e dopo aver finito?
Dei veri e propri rituali, quando inizio o quando termino un lavoro, non ce ne sono.
Qual è la tua tecnica preferita e perché?
Il disegno, a matita o a inchiostro su carta, è sempre quello che mi dà maggiori soddisfazioni dal punto di vista della resa estetica, ma la tecnica che più preferisco è quella ad olio su tela. La preferisco perché, nonostante la disciplina necessaria per avere un totale controllo di quello che si vuole rappresentare, allo stesso modo mi permette di giocare dandomi la possibilità di creare velature, colature, lavorare con il colore molto materico o estremamente fluido e, data la lentezza con cui asciuga, mi permette di cancellare o addirittura di abradere il colore sino a quasi consumare la tela. Quest’ultima è una fase che non sempre è visibile a risultato finito, ma è uno dei processi più importanti, un processo guida per tutto quello che verrà dopo.
Qual è l’errore che un artista non dovrebbe mai commettere?
Questa è una bella domanda, sinceramente non lo so. Bisognerebbe capire rispetto a cosa. Nel rapporto con l’arte in generale? Con le gallerie, i curatori? Con se stesso o con i propri lavori? A volte credo che non esistano cose giuste o sbagliate, nel mondo dell’arte ormai si è visto di tutto.
Che rapporto hai con le tue opere? Le vendi senza problemi o fai fatica a staccarti?
Una decina di anni fa avevo un rapporto di estrema gelosia, tanto da non mostrare a nessuno i miei lavori, se non ai più stretti amici che giravano per casa, forse per paura di ricevere un giudizio. Col passare del tempo ho iniziato a non avere più imbarazzo a mostrarli; lentamente ho imparato a fregarmene del giudizio delle persone – chiaro, un bel apprezzamento è sempre gradito! – perché ho capito che faccio quello che faccio non per gli altri ma per me stesso. Tornando alla domanda, anni fa era molto difficile separarmi o vendere senza problemi, oggi è diverso, riesco a vendere e quindi a staccarmi da un mio lavoro perché il sapere che qualcuno ha deciso di acquistare un mio quadro mi gratifica molto.