Marcello Jori è un artista intero contemporaneo: nato a Merano nel 1951, è un artista intero – si definisce così – nel senso che è quanto di più rinascimentale si possa incontrare oggi: “A questo tengo moltissimo, non eclettico, non totale, intero! – sorride mentre ci accoglie nel suo studio milanese – e il riferimento è il Rinascimento, quando esisteva una totale libertà nel lavoro dell’artista: nessuno si stupiva se l’artista scolpiva, dipingeva, faceva l’architetto, il designer, scriveva trattati di pittura, faceva le vite, come il Vasari. Ieri come oggi essere interi vuol dire rivolgersi a tutti i settori con lo stesso rispetto e la stessa libertà“.
Jori ha lavorato e lavora esattamente così: dagli anni settanta a oggi ha esplorato ogni campo della creatività – fotografia, pittura, scultura, design, letteratura… – sempre con risultati lusinghieri: e l’ultima sua impresa è La storia dipinta dell’arte, un volume illustrato uscito per Rizzoli da qualche settimana.
È un libro che misura 25,5 x 32,8 cm, composto da centinaia e centinaia di tavole ad acquerello, e sono tutte piccoli grandi capolavori: c’è davvero da perdersi nelle pagine de La storia dipinta dell’arte, perché a ogni lettura, a ogni sguardo si scopre qualcosa che avevamo trascurato, che non avevamo visto, che si era nascosto per bene e quindi ci era sfuggito.
È il coronamento di circa tre anni di lavoro in cui Jori ha ricreato ad acquerello la storia dell’arte dall’alba dell’umanità – anzi, da prima ancora: da Dio – fino ai giorni nostri. È un lavoro titanico, qualcosa di davvero grande, di cui Jori ha curato anche i testi. Entrando nel suo studio milanese si vedono a terra le centinaia di tavole che ha realizzato per arrivare alla versione finale del volume, si trovano ritagli, pezzetti, brandelli, un foglio di carta con un abbozzo di testa di Salvador Dalì.
Da dove partiamo Marcello?
Partiamo dalla chiusura del cerchio, che non si chiude mai!
Ovvero?
Nel senso che è un segno di infinito, e per quanto mi riguarda il tempo si è fermato. Tempo fa feci alla Galleria di Arte Moderna di Bologna una mostra che si chiamava Il tempo fermato, proprio per dichiarare che per me il tempo era fermo, il tempo dell’arte, il tempo della mia vita. Io da sempre vado avanti e indietro temporalmente nel mio lavoro.
Oggi dovremmo parlare de La Storia Dipinta dell’Arte, ma mi piacerebbe fare prima un passo indietro, perché tu da sempre lavori sulle opere e sugli artisti
Sì, in fondo Morandi aveva le bottiglie, Fontana aveva il taglio, io agli inizi della mia carriera avevo il corpo dell’artista. Il corpo dell’artista è il contenitore di tutte le opere, è un forziere, sono dei tesori ambulanti i corpi degli artisti. All’inizio l’ho fatto sovrapponendomi fotograficamente [mostra un trittico fotografico in cui il suo volto si trasforma in quello di Max Ernst, ndr] servendomi di fotografi molto bravi per ricreare le stesse situazioni delle foto degli artisti, con le stesse luci, gli stessi sfondi, sostituendo gli occhi miei agli occhi di Picasso, e così via: a quel tempo gli artisti “usavano” la fotografia, e tieni conto che io mi ero affacciato sulla scena che il concettuale stava finendo. Lavoravo con il fotografo di Claudio Parmiggiani, è stata quella la mia adolescenza da artista.
Quanto lavoro c’era da parte del fotografo?
Un enorme lavoro, visto che il computer non esisteva. Intanto bisognava ricostruire la scena, con gli stessi bianchi e neri, trovare la situazione giusta, poi dovevo atteggiarmi nella stessa posa, con il fotografo che mi guidava, e poi un gran lavoro di camera oscura.
Quanti ne hai fatti di questi ritratti?
Mi sono trasformato in Picasso, Max Ernst, Andy Warhol, Paul Klee, tutti i miei grandi “amori”. Quello di Max Ernst si chiama Vecchio di anni 23. Lavoravo anche sulle opere d’arte, cercavo di ridar loro vita, visto che erano diventate solo materia. Ofelia, di Millais, lo prendevo, lo mettevo in uno spazio come quello rappresentato nel quadro, lo facevo galleggiare, lo raccoglievo, lo riempivo di baci e poi lo tumulavo. Oppure portavo i tramonti di Turner al mare, e li rifotografavo.
Quali erano le tue intenzioni?
Non c’era ironia, io trattavo le opere d’arte come creature vive, da staccare dai musei e riportare alle situazioni atmosferiche che le avevano generate. Facevo coprire di neve I Cacciatori nella neve di Bruegel, che così diventavano i I Cacciatori nella neve, nella neve.
Prendendo questo filo della tua ricerca artistica arriviamo a oggi: ne La Storia Dipinta dell’Arte hai portato all’estremo questo tuo lavorare sulle opere e sugli artisti
Non avevo previsto se non allo stato di sogno di poter fare una cosa del genere, è stata una cosa fatale… in cui sono stato un attore, sono stato quasi “usato” da altre forze. Nasce tutto dal direttore di FlashArt, la rivista di arte contemporanea, che un giorno mi ha portato a pranzo e mi ha detto che aveva un sogno, la storia dell’arte fatta da un artista. Io sono rimasto basito, come faceva a sapere che io potevo fare qualcosa del genere? Io nemmeno pensavo di poterla fare. Mi stavo mettendo in una situazione grave e folle, cosa mi è saltato in mente di dire di sì?
E alla fine poi hai scritto anche i testi
È dall’inizio della mia carriera che lavoro su tutti i settori della creatività, ho cominciato con la fotografia, poi la pittura, e la scrittura che non ho mai abbandonato, ho pubblicato per Mondadori, per Einaudi. È stato Oreste del Buono a farmi da “padre” nella scrittura, quando pubblicai Nonna Picassa per Mondadori: mi fermò per strada, gli raccontai il libro che volevo scrivere e mi disse “Ti faccio una casa editrice solo per questo libro!” e mi propose il contratto in mezzo alla strada.
Hai lavorato in tanti settori, moda e design compresi: c’è un settore cui sei rimasto più affezionato?
Il design forse? Ma no, in realtà tutti. Tutti allo stesso modo. La creatività è sempre una sola in fondo, e i vari settori della creatività concedono tutti una parte di libertà più o meno grande, variabile. Per esercitare questa libertà al meglio e soprattutto perché ti venga offerta la possibilità di esercitarla ci vuole tempo. Soprattutto perché come artista ci vuole tempo per essere credibile.
Negli anni ’70 era il contrario
Negli anni ’70 il dilettantismo era la forza, nel senso che un pittore faceva il musicista, un musicista faceva lo scrittore, e così via: anche senza sapere dominare il mezzo, ma quella era la forza. Perché non conoscendo il mezzo si potevano scoprire delle cose nuove e originali. Adesso quello che interessa a me è il professionismo. Quando entro in una dimensione creativa ne voglio rispettare i contorni, le regole.
Come si fa a farsi dare “le chiavi della macchina” dai professionisti ed esercitare la tua libertà di artista?
Eh! Devi essere bravo, ci vuole del tempo, del talento e poi devi dimostrare quello che sai fare prima che ti diano le chiavi, non è sempre facile. Poi però se va tutto bene arriva il momento esaltante, quello che rende la vita dell’artista gratificante, quello in cui le persone si fidano e ti lasciano fare al massimo livello qualitativo. Ci vuole una vita non tanto di consensi, che è una parola che non amo, ma di affidabilità, di credibilità. Perché in questo momento più che mai le case editrici non rischiano e con gli investimenti ci vanno piano: e qui arriviamo a La storia dipinta dell’arte.
Le tavole le hai dipinte in studio, ma dove hai scritto i testi de La Storia Dipinta dell’Arte?
A un certo momento ho scoperto che c’era un punto di energia nella mia città natale, Merano, sul fiume, sotto un castello: una caffetteria quasi viennese. Mi mettevo in quel punto a picco sul torrente: e mi succedeva che dopo avere tanto lavorato, mesi, raccoglievo il materiale scritto in eccesso che mi sembrava buono, e andavo lì a rileggerlo. Lì lo trovavo buono, ma non all’altezza: mi mettevo lì e passavo qualche giorno, all’aperto, anche nei periodi freddi, con le coperte, ed era una specie di entrata in un’altra dimensione.
Cambiava tutto?
Tutto quello che avevo scritto si rivoluzionava, partiva la scrittura, quella giusta. Mi stupiva quello che usciva fuori, venivo preso da una specie di eccitazione dove tutto si scriveva da solo e arrivavo in fondo, e la cosa mi piaceva, andavo a rivedere quello che avevo fatto, ed era tutt’altra cosa rispetto a quello da cui ero partito. Era diventata quasi una dipendenza andare lì, solo lì raggiungevo quella concentrazione assoluta che veniva dalla bellezza del luogo, dal rumore del fiume, del torrente, che è ipnotico, che mi portava alla concentrazione massima e mi faceva dimenticare tutto. La concentrazione assoluta. La bellezza di questo posto, con la foresta davanti, il castello sopra, era una dimensione magica che mi procurava quello che cercavo. Il bar chiudeva e delle volte restavo lì all’aperto…
Sei andato avanti a lavorarci per tre anni. Sono belli lunghi tre anni su un solo progetto
La cosa che mi ha permesso di arrivare in fondo sono state le scadenze di FlashArt, ogni due mesi dovevo fare una puntata: è come quando scali una parete di roccia e ti concentri sul segmento da percorrere, perché se pensi a tutta la salita ti butti di sotto, torni a casa. A un certo punto Politi, il direttore di FlashArt, mi disse: “Pensi che riesca a vederlo finito prima della mia morte?“. Ed ecco un altro momento fatale, l’arrivo della Rizzoli, determinante, che mi propose di fare il libro, e io in maniera un po’ superficiale dissi “Non c’è problema“. La scadenza per cui avevo firmato era tra un anno, una pazzia. Loro sono caduti in questo mio delirio, perché volevo che accadesse, volevo forzare i confini del destino. Arrivato a giugno dovevo consegnare l’opera, e non ero neanche al Rinascimento, loro avevano già allertato i commerciali, venduto il libro… pochi giorni prima della scadenza, li chiamo: “Sapete, se vogliamo fare una cosa fatta bene dobbiamo rimandare di un anno: che problema c’è?” dall’altro capo del telefono, gelo. Qualche parola di circostanza. Poi non mi sono fatto sentire per mesi, richiamo “Guardate che sto andando avanti” altro gelo dall’altra parte del telefono “Se volete venire a vedere…” e rispondono “Sì così forse facciamo la pace. Lei si rende conto di cosa ha fatto, ha fatto una cosa gravissima“.
Pace fatta?
A quel punto loro non ci credevano più “Lei ci mette cinque anni…” mi dicevano, avevo finito solo la Grecia a quel punto. Poi alla fine mi fecero giurare che sarebbe stata l’ultima volta, e da lì in poi mi sono tuffato in una specie di voragine micidiale, sei mesi che sono stati drammatici, ho lavorato dalla mattina alla notte tutti i giorni, una fatica titanica.
Concentrazione totale
Esatto, questo ha fatto la forza del libro, alla fine ho ringraziato questa necessità. È per questo che il libro è così forte. Perché quando ho guardato in avanti e visto tutta la storia che mi stava davanti pensavo non fosse umanamente possibile farcela. La soluzione era una sola, la grande sintesi, che adesso lo vedo, è la forza del libro. Lì ho scelto di fare in tre pagine Caravaggio e ho voluto metterci solo quello che era strettamente Caravaggio: l’invenzione del cinema puro, lo spavento, il fare paura. Michelangelo l’ho fatto in sei pagine.
Se ben ricordo Michelangelo ti ha dato qualche problema
Con Michelangelo avevo iniziato così “Se un angelo scendesse sulla terra e chiedesse a qualsiasi artista del mondo chi vuole diventare, nessuno al mondo direbbe Michelangelo“. Questa era la partenza. Mi piaceva talmente tanto quello che scrivevo che sentivo un’elettricità che mi passava dalla mano, scrivevo senza fermarmi, mi era sembrato straordinario. Vado a FlashArt e gli porto il testo, e il testo sparisce. Comincio ad agitarmi, perché per me quel testo era un tesoro, non avevo copie, l’avevo scritto a mano: una settimana e mi chiamano, per fortuna l’avevano ritrovato. Mi preparo a disegnarlo, sparisce di nuovo. Passano altri giorni di ricerche, lo trovo dopo quasi una settimana sul fondo della biancheria sporca. Ma come faceva a essere finito lì? Parto per Merano, me lo porto dietro, vado in un bar, sparisce un’altra volta. Dimenticato lì, però dal bar mi chiamano: era là. Dopodiché vado di nuovo in un altro bar, mi porto tutto in un altro caffè sempre al Tirolo, e lì lo perdo definitivamente. Michelangelo non voleva che scrivessi quella roba lì.
Che hai fatto allora?
L’ho riscritto completamente. Credo che nessun artista voglia sentirsi dire che nessuno vuole essere come lui, Michelangelo ha lavorato tutta la vita per essere l’artista più grande dell’universo. Da quando sono partito a scriverne con il rispetto dovuto, è andato tutto liscio.
Prima mi raccontavi di quando ti è stato proposto da Politi di FlashArt di realizzare La Storia Dipinta dell’Arte: accetteresti ancora?
Non so. Se dovessi ricominciare un’impresa del genere avrei paura. È stato talmente emozionante farla, e talmente intensa l’emozione che non sentivo la fatica. Una specie di delirio, ma avevo proprio paura di non farcela, ero prigioniero dell’opera: a un certo punto mi firmavo Marcel Dantès, come nel Conte di Montecristo. Prigioniero di questa meravigliosa punizione.
Un’opera in cui però non eri solo
Ero circondato da urla, da compagnia, di grandezza, di capolavori: dovevo affrontare la Gioconda, la Cappella Sistina, Picasso…