Continua Vacanze Italiane la rubrica dove raccontiamo i posti dove tutti noi siamo stati in vacanza fino ai 18 anni. È il nostro tema libero sull’estate, visto che ormai siamo in periodo di compiti per la vacanze: se volete mandare la vostra vacanza italiana, scrivete a info@dailybest.it.
Qualcuno diceva che villeggiatura fosse una di quelle parole desuete che stanno a indicare una condizione sempre più rara, inaccessibile a chi, oggi ultra-trentenne, deve inseguire il lavoro quotidiano nella Capitale del Male (l’espressione è di Enrico Sola).
Oggi di villeggiatura se ne parla e se ne fa poca: sono cambiati i tempi, solo pochi possono permettersela, oppure pensiamo che sia sempre meno diffusa perché è un concetto uscito dal nostro perimetro, vai a sapere. Eppure c’è stato un tempo legato all’adolescenza in cui era un termine non solo conosciuto ma anche messo in pratica e, per chi scrive, un concetto indissolubilmente legato a un luogo, il Lago di Garda, e a una stagione, l’estate.
Da piccolo ero uno di quei fortunati che poteva godersi due-tre mesi di vacanza in una villa isolata, in mezzo al bosco. Quella casa era all’inizio un rudere fatto costruire da qualcuno che voleva andarci a vivere con l’amante, almeno secondo quel che insisteva a spiegarci un pittoresco agente immobiliare veneziano, proprietario di una Ferrari 308 – rossa, alla Magnum P.I. – e dalla brillantina su un capo senza capelli.
L’obiettivo dei miei genitori – gente che a un certo punto della loro vita si trasferisce da Parigi a Pavia e poco dopo scappata dall’Italia per i ridenti lidi della Somalia, del Pakistan e della Thailandia – era quella di trasformarla nella magione estiva di famiglia, dopo tanto girovagare e aver fondamentalmente cominciato a sentire la mancanza di radici. Tale era la volontà di farla diventare la casa della vita che fatto il rogito ci si fionda dentro nel pieno di un’estate già esplosa, quella del 1990.
Allora il mondo doveva affrontare l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, mentre io nel mio piccolo i coetanei che avrei incontrato al paese e che sarebbero stati compagni di nuove esperienze da lì agli anni a venire. La casa era ancora un cantiere, non c’erano neanche gli infissi alle finestre, di fatto era come andare al campeggio e per questo era la cosa più bella del mondo: una villa con decine di stanze, due livelli, diversi ettari di terreno ma all’interno assi di legno che fungevano da cucina, brandine pieghevoli, un cane che andava nel bosco e si perdeva per ore.
Ma eravamo una famiglia e questo bastava per cominciare un rito che si sarebbe ripetuto fino ai miei 20 anni, circa: le estati al lago, mesi che passavo a Torri del Benaco, in provincia di Verona, dove il lago di Garda comincia a restringersi e a diventare una meta meno di massa e più suggestiva. Si cominciava a giugno, si finiva nel weekend di Miss Italia a settembre, l’evento nazional-popolare che sanciva l’inizio dell’autunno, più delle piogge.
Fin da piccolo, il “Lago” – così era familiarmente chiamata quella casa – era un luogo importante per le nostre dinamiche: lontano da Milano, vicinissimo a Verona dove c’erano diversi parenti, abbastanza isolato per un po’ di privacy. Per raggiungere il paese c’erano lunghe discese in bici di 6-7 km fino al centro velico di Torri del Benaco per seguirne i corsi o per le oziose partite a carte al Lido, che diventavano il teatro delle relazioni e portavano dinamismo a quei momenti immobili. Così ci si faceva un po’ di amici.
Il bello di quel periodo era, infatti, che per conoscere qualcuno – a dispetto di una latente timidezza tipica dell’età – bastava poco: uno”street fighter” ai videogiochi, un tuffo in acqua, una lezione di vela.
Chissà quando è arrivato il momento in cui per conoscere qualcuno abbiamo cominciato a farci quelle menate, invece di restare leggeri. Le comunità presenti erano molteplici: c’erano i veronesi di città, a loro volta suddivisi tra fighetti e persone normali, tutti loro trasferivano al lago le amicizie cittadine e viceversa; poi c’erano i lacustri che, fossi ancora lì, oggi chiamerei “The Others”, delle entità quasi mitologiche con cui non c’erano rapporti e vivevano male l’invasione annuale, la loro unica botta di vita; infine, c’erano quelli come me, avulsi da qualsiasi contesto geografico e che si ritrovavano lì quasi per caso ogni anno.Nonostante il corollario di infinite combinazioni che ai piselli di Gregor Mendel si fa un baffo, credo che il bello della villeggiatura fosse proprio quell’aura di famigliarità dei soliti volti.
Quando si frequenta un luogo, nel mio caso si aveva accesso a mondi e persone che in città, in linea generale, era difficile anche solo incrociare. Come dimenticare le famiglie tra industria e Opus Dei con 8 figli, i figli dei benzinai ovvero i petrolieri, così si diceva. La villeggiatura livellava le classi. Generalmente, in tutto questo marasma, ho quasi sempre avuto la fortuna di essere il piccolo della compagnia di amici, spesso di qualche anno più grandi, ed essere un po’ ben voluto da tutti, nonostante i limiti di età ed estrazione, oltre che cognitivi.
Quello che mi fa piacere ricordare come episodio è quando incontrai quello che identificai il mio doppio.
Ho sempre vissuto in contesti dove il mio nome, Zeno, era considerato particolare, oltre che soggetto a battute di una sfiga totale sulla “coscienza”, e così essere catapultato in quella zona dove gli Zeno non erano una rarità – grazie al patrono di Verona o del paese di San Zeno di Montagna – portava a farmi sentire meno speciale da quel punto di vista.
Una vera e propria lezione di vita ci fu quando per la prima volta, a 14 anni circa se ben ricordo, incontrai un ragazzo, un locale, con il mio stesso nome. A parte il colpo – necessario – all’autostima, la cosa curiosa fu intavolare un discorso con il mio omonimo e averne in tutta risposta un monologo sui “negri e la necessità di Hitler”. Sapere che in questi giorni c’è stato un festival neonazi proprio a Torri del Benaco mi fa sorridere e mi porta a pensare a quel ragazzo che non amava né i Beatles né i Rolling Stones.
E soprattutto alla scoperta algebrica del proprio uguale e contrario, come l’ho ripensata per molti anni, qualcosa che fa parte del processo inevitabile che prima o poi ci porta lì, dal considerarci unici, a essere uno dei tanti.