Testa china davanti allo specchio. Capelli biondi, qualche ciuffo che si ribella alla morsa della coda alta sulla nuca. Una divisa acquamarina dai grandi e morbidi risvolti bianchi. Poi la sua faccia – quella faccia – che sale piano e si riflette muta: un occhio bendato, l’altro chiuso in un’espressione trattenuta di dolore.
È un’infinitesima frazione di secondo quella in cui dischiude le palpebre e guarda se stessa riflessa, prima che l’inquadratura passi altrove. Un fotogramma elusivo di una potenza immaginifica totale.
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Due triangoli bianchi le incorniciano il collo mentre sulla sinistra un mare verticale di onde dorate lambisce i lineamenti del suo ovale perfetto: le labbra serrate, le narici tese, l’occhio a destra che è una diga tremolante di lacrime, sotto una mezzaluna bluastra delinea lo zigomo alto, nell’altra metà del viso un quadrato bianco tenuto fermo da due lembi di nastro messi a croce.
È tutto lì, in quell’immagine, in questo video.
https://youtu.be/rQoL6rPBuio
Lei è Chloë Sevigny. In questo videoclip (I Feel Like The Mother Of The World di Smog, diretto da Bryce Kass nel 2005) indossa i panni di una cameriera di motel. Sistema, pulisce, lava. Le televisioni delle varie stanze sono attraversate da notiziari che riportano immagini catastrofiche. L’anchorman è proprio Bill Callahan, ovvero Smog in persona.
Callahan stesso ha dichiarato che questa è una canzone contro la guerra. Ma la guerra qui è soprattutto interiore, autistica, inespressa. Nessuno sa, tranne lei, Chloë. Mentre la voce profonda di Callahan canta “God is a word / And the argument ends there”, lei si imbatte nelle foto dei figli degli ospiti del motel, poi guarda una bambina tuffarsi nella piscina (“When I was a boy I used to get into it bad / With my sister”), entra nella stanza 228 e accarezza tenera il lettino di un neonato, in sottofondo chitarra e banjo si rincorrono ossessivi sul ripetersi struggente di “Oh do I feel like the mother of the world / With two children”. Chloë si ritrova così, come all’inizio, sola dinnanzi a uno specchio: indugia qualche secondo, poi alza la benda, l’occhio nero, tumefatto, e piange tutto il dolore del mondo, mentre tenta goffamente di nascondere la ferita. E ancora una volta è tutto lì, in quell’immagine. Stavolta con una lacrima in più a solcarle il profilo. In quei 3’18” è racchiuso l’intero mondo di Chloë, quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere.
Chloë fucking Sevigny, the coolest girl in the universe*
Nel 2005, all’età di 30 anni, lei è già quell’attrice/modella/trend setter/designer famosa in tutto il mondo per il suo stile, il suo carisma, la sua irriverenza, la sua naturalezza, i suoi lineamenti androgini, il suo sguardo malinconico, sensuale e perverso al contempo, le sue disinibizioni artistiche. Insomma, una personalità in grado di mettere in corto circuito lo star system, perché nonostante ne faccia inevitabilmente parte è sempre riuscita a mantenersene fuori grazie alla sua originale attitudine, ovvero essere semplicemente se stessa. Tutt’oggi infatti è considerata un’icona alternativa, underground, l’anti-diva indie, un’outsider preppy-punk: tutte definizioni affibbiatele nella seconda metà degli anni ’90 grazie a pellicole come Kids, Gummo, Boys Don’t Cry, Julien Donkey-Boy. E la cosa più interessante, che emerge dal suo libro fotografico – semplicemente intitolato Chloë Sevigny (Rizzoli New York, 2015) -, è che questa sua peculiare “unicità” è legata a doppio filo alla musica, al suo innato rapporto estetico con le sette note: una curiosità insaziabile che ha avuto sin da bambina e che non ha mai smesso di alimentare. I videoclip musicali, tutti d’autore, nei quali ha partecipato come attrice rappresentano una sorta di riconoscenza e legittimazione del suo status di musa. I Feel Like The Mother Of The World costituisce forse il picco più alto, sia per la sua sentita interpretazione attoriale, ma soprattutto per l’immensa levatura artistica di Bill Callahan, che prima sotto la sigla Smog poi a proprio nome ha segnato e continua a segnare significativamente la storia del cantautorato indipendente mondiale.
Il libro fotografico è uno scrigno preziosissimo. Sono molte le immagini che raffigurano la giovane Chloë, cresciuta a Darien nella provincia del Connecticut, i suoi adolescenti anni di formazione, il suo approdo nella Grande Mela. E così sono infiniti i rimandi alla musica. Già la copertina la ritrae seminuda con indosso soltanto un body argentato mentre imbraccia una chitarra elettrica. Poi le foto della sua cameretta: alle pareti in bella vista i poster dei Sebadoh, Sonic Youth, The Breeders, St. Johnny, addirittura una foto di Courtney Love. Skate ed estetica punk hardcore quasi ovunque. Chloë con un vestitino bianco succinto sul prato di Randall’s Island in occasione del Curiosa Festival, organizzato da Robert Smith: oltre ai Cure partecipavano pure Interpol, Rapture, Mogwai, Muse, Cursive, etc. Al concerto di Morrissey con una salopette di jeans. Al Coachella nel 2008. E così via.
Tutte foto queste che si vanno a intervallare senza nessun ordine cronologico ai vari periodi della sua vita – l’infanzia, pubblicità famose, i suoi film, la sua relazione con Harmony Korine – in un turbinio vertiginoso e ammaliante di stili diversi e look più disparati.
Ma sono nientemeno che le parole della bassista e cantante dei Sonic Youth Kim Gordon – che del libro in oggetto ha curato le prefazione – a suggellare una volta per tutte il viscerale rapporto di Chloë con la musica: “Parlando con lei circa le origini del suo stile unico non mi sorpresi a scoprire che lei non era cresciuta studiando attentamente le riviste di moda. Il suo riferimento erano state le copertine dei dischi di suo padre, a cinque anni i suoi grandi occhi erano sintonizzati su Blondie e Marianne Faithfull”. Ma non solo, Kim svela come fondamentale per Chloë l’influenza del fratello maggiore.
Paul Sevigny era uno skater e ascoltava musica hardcore: “Ricordo che Chloë mi ha raccontato che suo fratello aveva una ragazza con i capelli blu e che quello rappresentò il suo primo incontro con lo stile punk – e vivendo nella periferia del Connecticut, da quel giorno non fu più lo stesso. Mi disse: That blue hair… I never looked back”. A rafforzare ancor di più questa tesi è l’altra amica/collega Natasha Lyonne, alla quale è stata affidata la postfazione: “La sua estetica è fortemente influenzata dalla musica. La musica è un linguaggio importante per Chloë. Lei è come un’enciclopedia. Lei non conosce le cose perché vanno di moda, ma perché ha una esperienza diretta vivendole in prima persona. Quando eravamo giovani non c’era internet: non si potevano conoscere le cose a distanza, si doveva lavorare per arrivare lì ed effettuare i collegamenti da soli. Quel suo essere outsider ha molto a che fare con quello a cui era attratta quando era piccola. Non si tratta di ascoltare i Sonic Youth a 25 anni perché qualcuno con cui sei stata te li ha fatti ascoltare e ti ha fatto pensare che fossero cool. Ha a che fare con la scoperta dei Sonic Youth quando sei giovane, perché stai male e hai bisogno di una via di uscita per sopravvivere”.
I love you Sugar Kane
E la carriera attoriale di Chloë comincia proprio grazie ai Sonic Youth, rumorosissima band newyorkese paladina della scena alternativa rock mondiale.
Primissimi Anni Novanta, alla ribelle adolescente Chloë la vita di provincia del Connecticut inizia a stare stretta, sfrutta i fine settimana per fuggire a Manhattan – soltanto un’ora di treno dalla sua cittadina Darien – dove comincia a frequentare un gruppo di skater a Washington Square Park. Durante una di queste “scappatelle” un editor della rivista fashion Sassy la incrocia per strada e resta folgorato dal suo stile aprendole così per la prima volta le porte del mondo della moda. Kim Gordon racconta: “Ho incontrato Chloë durante il suo periodo di tirocinio presso ‘Sassy’. Noi stavamo cercando una ragazza per il video di Sugar Kane. Chloë aveva diciassette o diciotto anni; si era da poco tagliata i capelli cortissimi e sembrava un ragazzo. Sugar Kane ha rappresentato la sua prima volta in un video […] Lei era dolce e fresca e androgina”.
Sugar Kane (terzo singolo estratto dall’album del ’92 Dirty) è la canzone dei Sonic Youth che più di tutte riesce a sintetizzare perfettamente noise e pop: una caramella sonica dai mille gusti e colori, graffiante e gommosa allo stesso tempo. Il video diretto da Nick Egan riprende la band mentre suona durante una sfilata di moda “grunge” a New York (erano anni seminali e contraddittori: la purezza underground che si contamina con il plasticoso mainstream e viceversa). Ma la protagonista assoluta è la giovane Chloë. Compare nei primi secondi con un trucco scuro e pesantissimo sugli occhi in netto contrasto con la faccia pallida incorniciata dai biondi capelli tagliati cortissimi: un angelo diafano e sconvolto che passeggia impudente per le strade affollate newyorkesi con continui cambi di abito, fin quando non irrompe sulla passerella e sfila completamente nuda. Musica, moda e provocazione sessuale: tre componenti che si incroceranno di continuo nel suo percorso artistico. Ma Sugar Kane mette in risalto anche un’altra curiosa contraddizione: il testo della canzone è ispirato all’icona immortale di Marilyn Monroe (Sugar “Kane” Kowalczyk è il nome del personaggio che interpreta in A qualcuno piace caldo), mentre il video pone al centro Chloë, l’anti-diva, colei che con il suo innato gusto estetico va a disinnescare proprio l’idea di bellezza canonizzata e codificata. Infatti, sia Kim Gordon sia Natasha Lyonne la pensano allo stesso modo: “Il suo stile è come una boccata di aria fresca rispetto alla blanda e hollywoodiana proposta circa la sessualità femminile e la democratizzazione di ‘cool’” (Kim); “Penso che la gente di New York sia rimasta affascinata da lei così presto perché ha rappresentato un antidoto al tipo di idea di bellezza prodotta a tavolino che era facile e liscia e senza anima. Chloë diventa il volto di qualcosa di reale, qualcosa di innato e forte e irriproducibile” (Natasha).
Harmony & Chloë
Così in quegli anni Chloë Sevigny conquista la scena indipendente e non solo della Grande Mela, dove si era trasferita definitivamente. Lo scrittore Jay McInerney scrive sul New York Times addirittura un articolo di sette pagine su di lei soprannominandola la nuova “it-girl” e definendola “la ragazza più cool del mondo”. Il gruppo power pop Gigolo Aunts la usa come modella per le copertine dell’ep Full-On Bloom (1993), del singolo Mrs. Washington (1993) e dell’album Flippin’ Out (1994). Poi è la volta di altri due videoclip (pubblicati entrambi nel 1994), di importanza sempre più crescente: Autumn del videoartista californiano Doug Aitken e soprattutto Big Gay Heart dei Lemonheads. Proprio quest’ultimi in quegli anni erano nel pieno della loro notorietà, grazie anche alla debordante vita privata del leader Evan Dando.
Ma è l’incontro con Harmony Korine a segnare in maniera determinante la vita e il futuro cinematografico di Chloë – i due hanno avuto anche una relazione durata due anni. Grazie a lui infatti nel 1995 debutta nel cinema interpretando la protagonista in Kids (regia di Larry Clark, sceneggiatura dello stesso Korine). Pellicola indipendente che ha scandalizzato l’America perbenista raccontando nude e crude le vicende di un gruppo di adolescenti in un vortice senza fine di alcol, droga, sesso e AIDS. Kids ha segnato così tanto l’immaginario indie mondiale da diventare subito un cult, amplificando all’ennesima potenza lo status di nuova promessa underground di Chloë Sevigny: il suo stile, l’abbigliamento, lo sguardo, il suo modo di apparire così naturale e senza filtri le hanno conferito una riconoscibilità unica. E quello non era altro che il suo primo film.
Nonostante l’hype crescente, non si monta la testa, ma continua per la sua personalissima strada senza abbandonare il legame con la musica. Quello stesso anno fa la comparsa nel videoclip di un altro mostro sacro dell’indie-folk mondiale, Will Oldham, che in quegli anni firmava la propria musica a nome Palace Music (in precedenza Palace Brothers in futuro Bonnie ‘Prince’ Billy). La canzone è Old Jerusalem tratta da Viva Last Blues (1995), il cui video è la cosa più distante dal concetto di prodotto promozionale. Sopra la chitarra scarna e la voce trascinata di Oldham un lunghissimo piano-sequenza racconta i preparativi in cucina di una cena in famiglia, senza che vengano nascosti i rumori di fondo: si vede lo stesso cantautore pulire una zucca, poco più in là Chloë – caschetto biondo e camicia rosa – intenta a sviscerare un tacchino.
Poi è la volta di Gummo, il film del 1997 che sancisce l’esordio alla regia di Harmony Korine e che soprattutto incorona definitivamente Chloe come la paladina della Generazione X anti-mainstream. Protagonisti sono ancora un gruppo di adolescenti, le cui apatiche scorribande nella loro piccola e povera cittadina del Midwest americano – appena risvegliatasi dalla devastante furia di un tornado – vengono filmate con un taglio quasi documentaristico. La pellicola è un susseguirsi di frammenti schizzati di uno spaccato nichilista, disperato, degradato, infelice e angosciante, tra uccisioni di gatti, droghe, musica estrema, ragazze ritardate, freaks, pedofilia, malattia. Chloë non recita soltanto, ma le viene affidato pure il ruolo di costumista: sono tutte sue le scelte delle orecchie rosa da coniglietto, del costume intero col muso di tigre, delle t-shirt dei gruppi metal e glam come quella dei Poison, le giacche di jeans smanicate… Gummo è entrato a pieno diritto nella categoria cult grazie soprattutto all’immaginario estetico creato. “Per capire il suo innato senso estetico, tutto quello che dovete fare è guardare la scena di Gummo quando salta sul letto con il nastro adesivo sulle tette e i capelli e le sopracciglia ossigenate. Questo è tutto ciò di cui Chloë ha bisogno per creare uno delle più leggendarie e memorabili scene di tutti i tempi: un po’ di candeggina per capelli e del nastro adesivo” (Natasha Lyonne).
Best band name ever
Insomma, sì, Chloë Sevigny ha costruito tutto il suo mito in quegli anni seminali, ovvero prima del Terzo Millennio. Nel 1999 ci sono stati infatti altri due film indipendenti determinanti per la sua carriera: il perturbante Julien Donkey-Boy (regia ancora di Korine) girato secondo i dettami del Dogma 95, ma soprattutto Boys Don’t Cry (di Kimberly Peirce) che le valse la nomination come “Miglior attrice non protagonista” al Premio Oscar del 2000 (battuta sul filo di lana da Angelina Jolie per Ragazze interrotte). Del secondo è da segnalare la scena del karaoke: in un pub rumorosissimo una timida e alticcia Chloë si appresta a cantare insieme ad altre due amiche The Bluest Eyes In Texas dei Restless Heart tra risate, fischi del microfono e bicchieri che si rompono, l’inquadratura lentamente stringe sul suo sguardo malinconico e sconvolto, due occhi sensuali e provocanti che fanno innamorare proprio lì in quel momento quel ragazzo che in realtà è una “lei” interpretato da Hilary Swank (la quale per quel ruolo vincerà l’Oscar come “Miglior attrice protagonista”).
Da lì in poi il percorso cinematografico di Chloë Sevigny si immetterà in una corsia preferenziale fatta di ruoli sempre più importanti e prestigiosi, impennandosi ma normalizzandosi, ovvero abbandonando per strada quella ventata di aria fresca emanata fino ad allora – come forse era giusto e naturale che fosse anche per una questione puramente anagrafica.
Ovviamente parole come ribellione, scandalo, sessualità incasinata, indipendenza, emancipazione, non le si sono mai staccate di dosso, anche perché le ha sempre ricercate di continuo nelle miriadi di pellicole e serie tv nelle quali è stata coinvolta. Su tutte è da ricordare la scena di The Brown Bunny lunga ben 5 minuti durante la quale pratica una fellatio vera, senza finzione, all’attore e regista del film Vincent Gallo che diede vita a una polemica senza fine al Festival di Cannes del 2003 dove venne presentata la pellicola. Ma tutto ciò non rappresenta più niente di nuovo: quella scena avrebbe scandalizzato con qualsiasi altra attrice al suo posto. Chloë non avrebbe nemmeno avuto il bisogno di alimentarlo, che il suo mito, volente o nolente, oramai si era cristallizzato e reso in qualche modo immortale. Sarà sempre la Chloë degli anni ’90 ad aleggiare nell’immaginario cult indipendente.
Una curiosa e divertente prova di ciò non poteva che arrivare dal mondo musicale indie, da una semisconosciuta band di Baltimore, Maryland, nata nel 2011, che si chiama proprio così: Chloë Sevigny In Kids.
Questi quattro giovani ragazzi si muovono in territori emo-punk, uno dei tanti gruppi epigoni dei Cap’n Jazz usciti come funghi negli ultimi anni. Non vedranno mai le luci della ribalta, non hanno uno straccio di contratto discografico, molto probabilmente sono nati per gioco e può essere che si siano già sciolti, ma dobbiamo dargli atto della genialità del nome.
Sulla loro pagina Facebook c’è chi commenta “best band name ever” e in un loro video dove suonano live in una specie di appartamento alla parete è appeso lo stesso identico poster dei Sonic Youth + Breeders + St. Johnny che imperava nella cameretta della giovane Chloe a Darien.
Anche nei video musicali nei quali ha partecipato dal 2000 in poi la sua presenza è in qualche modo solo quella di “guest star” e niente più: Gamma Ray (Version 1) di Beck, Any Fun di Coconut Records, Lazy Slam delle Slits e Make Some Noise/Fight For Your Right (Revisited) dei Beastie Boys. L’unico a rappresentare una felice eccezione è proprio I Feel Like The Mother Of The World di Smog: come dicevamo, in quello specchio della stanza di motel ci sta tutto il mondo di Chloë, quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere. Lei stessa in qualche intervista ha ammesso di non riuscire a spiegarsi il perché abbia cominciato a recitare.
Ecco, se non fosse rimasta folgorata dalla musica quando ancora era una ragazzina, se non avesse mai incontrato quei capelli blu, se tutte quelle soniche coincidenze non si fossero realizzate, molto probabilmente oggi sarebbe una donna qualunque che vivrebbe ancora nella provincia del Connecticut e magari farebbe la cameriera in qualche motel con una benda a coprirle un occhio.
Quando la musica salva la vita.
* Parole di Natasha Lyonne nella postfazione al libro fotografico Chloë Sevigny (Rizzoli New York, 2015)