Sì, quello che vedete nella foto qui sotto con i denti marci e i capelli unti è Stefano Accorsi. E fidatevi che vi stupirà. Il 7 aprile è uscito Veloce come il vento, lo dirige Matteo Rovere che è un regista e produttore giovane e di talento – sue le produzioni di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (del quale sono in corso le riprese del secondo e terzo capitolo) e di The Pills – e che, ancora non lo sapete, riuscirà a stravolgere la vostra idea di Stefano Accorsi attore. Fermi. Aspettate. Davvero. Come ha fatto? L’ha semplicemente spogliato di ogni sovrastruttura e ha tirato fuori limiti e fragilità. Insomma gli ha fatto perdere il controllo, ed è proprio lì che funziona, quando perde il controllo.
Veloce come il vento è un gran bel film, e soprattutto è un esperimento riuscitissimo di action movie sulle corse tutto italiano. Un altro “esperimento” insieme a Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, che speriamo diventi “regola” per il cinema italiano. Che a quanto pare sembra stia davvero vivendo un momento di rinascita. Lo dicono anche i box office, le “solite” commedie sono stati dei flop, da Tiramisù di De Luigi a Un Paese Quasi Perfetto con Fabio Volo e Miriam Leone, ed è evidente che con questi nuovi titoli si sia un po’ riscoperta la voglia di andare al cinema.
Merito del marketing? Magari di quello fatto bene con gif animate, grafiche ad hoc e comunicazione intelligente sui social network? Anche. Ma soprattutto merito delle storie: ispirate, fantastiche, reali. Merito degli attori, delle nuove facce – vedi Matilda De Angelis – e di quelle già viste, ma rivoluzionate. Merito del coraggio di chi si produce da sé e dei produttori che non hanno paura. Veloce come il vento racconta la storia di una famiglia, di un ex campione di rally oggi disperato e tossico e di una sorella talentuosa che corre il Campionato GT.
Per semplificare, sia chiaro. Abbiamo incontrato Matteo Rovere, regista attento e preciso e produttore acuto e siamo partiti da questa “rinascita” per capire come si possa ricominciare a sperare.
A seguito del successo di Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, dell’entusiasmo per la trilogia di Smetto Quando Voglio che hai prodotto tu e dell’oggettiva riuscita del tuo Veloce come il vento pensi ci sia una reale rinascita del cinema italiano e un’apertura a nuovi talenti e a nuove storie?
Il pubblico e noi registi, che facciamo parte del pubblico, ci siamo un po’ stufati del film un po’ noioso, d’autore e che al cinema non ridà quell’emozione che ci aspettiamo per aver pagato quei 7 euro. Si, effettivamente ci si sta risvegliando, negli ultimi due o tre anni ci sono stati esempi che lo confermano, vedi appunto i titoli che hai citato, ma anche Suburra. Sono film che in qualche modo intrattengono e ti fanno divertire, con una storia. Veloce come il vento è un film d’azione, adrenalinico, ma contiene anche un racconto umano che lo fa passare a un livello che non è quello del mero action movie, ma anche dramma familiare, che fa piangere ma anche ridere. La risposta è la qualità, proviamo a fare dei film che noi come spettatori andremmo a vedere. Per i miei due film precedenti (Un gioco da ragazze e Gli Sfiorati) c’erano già sceneggiature pronte, questo è il mio primissimo film, scritto e inventato tutto da me e quando Domenico Procacci della Fandango mi ha chiesto cosa avrei voluto fare gli ho risposto: “beh, io vorrei fare Veloce come il vento, perché è il film che vorrei vedere al cinema”.
Pensi ci sia anche meno paura da parte dei produttori?
Secondo me ad un certo punto si sono rotti gli argini, un certo cinema non penetra più nel pubblico e da lì è nata la voglia di rischiare qualcosa. Rischiando qualcosa in più e facendo film non tanto usuali ma particolari possiamo anche andare all’estero e “fare le scarpe” ai francesi e al cinema europeo. Perché se in Francia, anche se il regista non è francese, si riesce a realizzare Ronin non vedo perché noi dobbiamo vergognarci di girare un action movie. Le auto le abbiamo, i piloti anche, gli stuntmen pure, e fidatevi che sono grandissimi stuntmen, perché non farlo?
È tua la produzione anche di The Pills e del recente film uscito al cinema che, purtroppo, per una serie di motivi, che sono il linguaggio, il vissuto, le scelte stilistiche non è arrivato a un grande pubblico. Non è un film per tutti (e ‘sti cazzi direbbero loro). A te da produttore volevo chiedere una riflessione rispetto a questo e alle scelte che solitamente fai in quel senso.
Io ho prodotto diversi film e mi piace sempre l’idea di aiutare altri autori e altri gruppi creativi di scrittori a portare in scena il loro racconto. Ho portato in scena la Foresta di ghiaccio di Claudio Noce, Smetto quando voglio di Sibilia, un film di Riccardo Rossi, i The Pills. Ho provato a fare un cinema che in qualche modo – e in questo i The Pills lo sono in pieno – fosse sperimentale nel linguaggio e provasse a utilizzare delle chiavi inconsuete. È chiaro che poi da regista faccio un cinema diverso e infatti produco proprio dei film che non sarei in grado di fare, che mi appartengono come spettatore ma non da autore.
Quanto invece conta l’ironia nel tuo lavoro da autore e produttore?
È centrale. Sono un cazzone. Mi diverto a scherzare e a vedere il cinema di commedia, mi piace però quando è affiancata una scrittura particolare, sperimentale e che sorprenda, che sia comprensibile, ma che in qualche modo “larga”.
Veloce come il vento è ispirato a una storia vera, è una pellicola di grande impatto visivo ed emotivo. Qual è stata la difficoltà maggiore nel realizzarlo: quella tecnica o quella emozionale?
Le difficoltà sono ovviamente diverse, nel senso che il film tecnicamente è una specie di case history in Italia, perché sia come riprese che come post produzione si è fatto un percorso che non si fa mai. C’è tutto un lavoro sul suono molto importante, soprattutto per la parte action. Quindi quella parte è stata molto faticosa ma bella perché abbiamo sperimentato compressioni sonore, disegni del suono, le riprese delle auto in corsa. La parte importante però era quella del racconto famigliare, la costruzione dei due personaggi, il lavoro con Stefano Accorsi e con Matilda De Angelis. Sono quei progetti che ti portano via un po’ l’anima.
Il lavoro che hai fatto su Stefano Accorsi è eccezionale. Forse il primo film in cui esce l’attore.
Si è trasformato, io volevo rompere lo schema di come lui era percepito dal pubblico. Ancora un po’ “Maxibon”, polentone, con la voce impostata da 1992. Gli ho detto che secondo me potevamo lavorare sulla trasformazione, ma soprattutto sulla linguistica e di fatto non fa che riscoprire la lingua che era dei suoi nonni. E così ha tolto tutto lo strato di recitazione, ha superato i limiti, scoperto le fragilità e ha dimostrato di che pasta è fatto. Anche Matilda – che interpreta Giulia, la sorella – è stata bravissima. Una volta trovato il personaggio è l’attore che gli dà una personalità, un cuore e lo fa vivere, non puoi farlo tu e non puoi nemmeno toglierglielo. E Matilda l’ha fatto.
Alla fine del film c’è una dedica: “Ad Antonio Dentini – Tonino”, chi è?
Tonino era un meccanico preparatore del mondo del Rally molto forte, omaggiato nel film da Tonino che è Paolo Graziosi, ed è stato lui a raccontarmi tutto il percorso personale di Carlo Capone. Capone è stato un grande pilota rally di fine Anni ’80, molto particolare e controcorrente perché nella sua carriera è sempre andato contro gli ordini delle scuderie fino a finire un po’ isolato da tutto. Ed è appunto a lui che si ispira il personaggio di Loris De Martino interpretato da Accorsi.
C’è una battuta di Accorsi – Loris che recita così: “Di disperati veri siamo rimasti in pochi”. Tu cosa pensi?
Forse un po’ di follia e di disperazione servono. A volte ci si salva anche grazie ai folli e a quelli che vedono le cose in modo imprevedibili. È una frase presa dalla realtà anche quella, mi emoziona molto e mi sembrava molto significativa.