Il vero terrore è non avere più segreti

Lotta al terrorismo e sorveglianza commerciale, cosa resta della nostra libertà


Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza
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Benjamin Franklin

 

Solitamente dopo i grandi attentati terroristici in occidente si riaccende il dibattito su sorveglianza e privacy. Quello che è accaduto a Parigi non fa eccezione e la domanda oggi è “Quanta libertà perderemo?” mentre il dubbio che coltivano in molti è “se per difendere la democrazia bisogna trasformarla in una forma leggera di dittatura non avranno comunque vinto i terroristi?

Nel frattempo Edward Snowden, il whistleblower che ha scoperchiato lo scandalo delle intercettazioni della NSA americana, è stato velatamente accusato dall’ex capo della Cia di essere responsabile indiretto dei morti di Parigi, (e da una conduttrice di Fox news, un po’ meno velatamente). Glenn Greenwald, il giornalista inglese che ha seguito e supportato Snowden nella sua denuncia, ha ribattuto scrivendo come le pratiche di sicurezza dei terroristi fossero già molto avanzate sin dai tempi di Osama bin Laden.

Ma al di là dell’emergenza politico-militare, che per altro potrebbe durare molto a lungo, è importante sapere che terrorismo o meno (comunque in enorme calo negli ultimi dieci anni in Europa) siamo già da tempo nell’era della sorveglianza digitale.

Le forze, Silicon Valley in primis, che spingono, per motivi economici prima ancora che di sicurezza, per l’abolizione del concetto stesso di privacy, non sono mai state così potenti.

In altri termini da come le società occidentali decideranno di affrontare il tema della privacy, da un punto di vista industriale almeno quanto quello della sicurezza, dipenderà molto della loro futura forma politica.

 

Non solo terrorismo e servizi segreti, siamo spiati ogni giorno

Nel recente dibattito sulla privacy c’è una frase, scritta dell’inviato del Corriere della sera Massimo Gaggi in occasione del segretissimo Camp di Google in Sicilia nel 2014, che nel suo essere tragicomica è però anche emblematica del tipo di ottimismo immotivato con cui spesso viene affrontato il tema della privacy nell’era digitale.

“In fondo il fatto che Google abbia scelto questa formula”(La segretezza assoluta ndr) “è una buona notizia. L’azienda che, come Facebook e molte altre imprese del digitale, tenta da molto tempo di liberarsi dai vincoli della «privacy», adesso riscopre le virtù della discrezione.”

In futuro esisteranno due umanità: quella con i dati e quella senza Come no. Per i “signori del web”  -proprio coloro che sulla monetizzazione dei dati personali hanno costruito le più importanti fortune degli ultimi decenni- la privacy è da sempre molto preziosa e da tutelare, il punto è che non si può dire lo stesso per quella delle persone che usano i loro servizi.

Lungi dall’essere un segnale positivo una situazione come quella del Camp in Sicilia è piuttosto una preziosa esplicitazione del principio secondo cui in futuro esisteranno due umanità: quella con i dati e quella senza, quella che controlla la tecnologia e quella che si limita ad usarla. Il messaggio implicito è che pensarle davvero sottoposte alle stesse leggi come si usava nelle democrazie è un po’ demodé

 

Noi ti schediamo e ti rivendiamo, tu non sai (quasi) nulla di noi

Come stanno oggi le cose in campo di privacy lo scrive invece piuttosto bene il professore di Harvard, Frank Pasquale nel suo libro “The Black Box Society

“La conoscenza è potenza. Sottoporre a controllo gli altri, quando si evita il controllo su sé stessi è una delle più importanti forme di potere”

Il titolo del libro di Pasquale si riferisce proprio a questo, al fatto, cioè, che le grandi società del web assieme a quelle di analisi finanziaria operano spesso come “Scatole oscure”, utilizzando, per immagazzinare ed analizzare dati sugli utenti, tecnologie e algoritmi il cui funzionamento è considerato un segreto industriale. I cittadini quindi diventano sempre più trasparenti, i raccoglitori di dati rimangono invece volutamente oscuri. Un buon segnale, come direbbero al Corriere della sera.

Un andamento di questo tipo non è affatto privo di conseguenze. Sulla base dei dati raccolti, Google e Facebook sono ad esempio in grado di fornire agli inserzionisti target molto definiti, riescono cioè a fornire agli investitori platee selezionate di utenti sulla base dei like che questi hanno seminato a destra e manca nel tentativo di definire sé stessi rispetto al resto del mondo, o come lo chiamiamo oggi “i nostri contatti Facebook”. Queste aziende offrono una targettizzazione molto più precisa di quella dei vecchi media generalisti e quindi molto più efficiente.

A nessuno a Facebook frega (comprensibilmente) qualcosa del vostro amore per i gatti in quanto tale, ma importa invece molto nella misura in cui potrebbe essere utile ad un inserzionista, così come il vostro like sul sito della Lega può essere utile a un produttore di armi da difesa domestica o a un editore di libri con caratteri molto grandi o quello sulla pagina dei Wu Ming a un produttore di Eskimo cucito a mano da nostalgici degli anni 70 che fanno le rivoluzioni su Twitter, o quello sulla mia pagina genererà ottime offerte sul prezzo delle bambole gonfiabili.

Se utilizzate un sistema di posta elettronica di Google anche la vostra posta è scansionata a fini di targettizzazione personale, così come le vostre scelte di Youtube e le vostre query di ricerca. Questo solo per quanto riguarda i social e i motori di ricerca, istituti finanziari possono negare ( o concedere) finanziamenti sulla base di dati personali che probabilmente non sapete nemmeno essere in loro possesso, le assicurazioni sanitarie offrire prezzi più o meno convenienti e così via.

Più tracce lasciamo digitalmente, e ogni giorno che passa una parte maggiore della nostra vita si svolge online, più forniamo a soggetti terzi, il più delle volte inconsapevolmente, un’enorme quantità di dati sulla nostra vita. I dati vengono trattati in maniera anonima o individuale, per migliorare l’efficienza dei servizi o aumentare i ricavi, il più delle volte entrambe le cose. Tendenzialmente la nostra reazione è riassumibile nelle motto “e vabbeh, chissenefrega, senza whatsapp scoperei la metà”.

Ma, amico, la metà di 0 è sempre zero!

 

Mattia Buffoli - la defense Mattia Buffoli - la defense

 

In fondo non crediamo che proteggere i nostri dati sia veramente importante (i dati non si toccano, né si mangiano, quindi non sono niente di rilevante, pensa l’italiano medio) e la prima volta che leggiamo la notizia che Amazon promette di mandarci a casa nostra dei prodotti prima ancora che ci sia venuto in mente di ordinarli, la cosa ci suona talmente surreale che il primo istinto è controllare se l’articolo l’ha scritto il sovrano assoluto delle notizie da barra destra Elmar Burchia.

Di gratis non esiste niente. Ora tagliati quella barba e trovati un lavoro vero Ma, se leggiamo l’articolo che illustra nello specifico l’idea, tutto diventa molto meno assurdo e infine assume un’inedita sfumatura distopica se si considera la storia dell’adolescente incinta e del supermercato. La storia funziona così: la catena di supermercati Target spedisce ad un’adolescente, basandosi sui suoi acquisti precedenti, sconti sui prodotti per giovani madri. Il padre quindi protesta veementemente con la direzione “Come vi permettete di spedire cose del genere a quel giovane angioletto illibato di mia figlia?“. Purtroppo per lui la figlia era effettivamente incinta, lui non lo sapeva ancora, ma l’algoritmo del supermercato sì.

Firmiamo o accettiamo continuamente condizioni di utilizzo di servizi che prevedono lo sfruttamento dei nostri dati. In alcuni casi (come nelle tessere fedeltà dei supermercati) l’essere tracciati ci dà accesso ad alcuni piccoli vantaggi, in molti altri è semplicemente obbligatorio se si vuole potere utilizzare il servizio. Spesso anzi i nostri dati personali sono l’intero prezzo che paghiamo per un servizio (Facebook, Google ecc), un prezzo tutt’altro che basso, se considerate che è il tipo di valore che ha generato le più grandi fortune economiche degli ultimi vent’anni. Come dicevano le nonne che non avevano Instagram “Di gratis non esiste niente. Ora tagliati quella barba e trovati un lavoro vero ”.

 

Il monopolio vs l’individuo, la lotta dei nostri tempi

In un’ambiente digitale come quello in cui viviamo, privo di regolamentazioni e dominato dalle aziende della Silicon Valley, le situazioni in cui si può scegliere davvero se condividere o meno i propri dati con la controparte tendono naturalmente ad estinguersi. È un meccanismo diretta conseguenza dell’ossessione per la scalabilità delle aziende digitali più remunerative. In altri termini quello che accade è che le start up digitali che vogliono massimizzare il guadagno devono raggiungere un numero sempre maggiore di utenti in un tempo molto ridotto. Essendo internet globale ci possono essere solo poche versioni (se non una sola) dello stesso servizio e quanto più un servizio assume una posizione dominante, tanto più può permettersi di scrivere in autonomia le regole del gioco, il che significa, tra le altre cose, impossessarsi di sempre più dati e aumentare ulteriormente il proprio vantaggio competitivo.

Esempio concreto per la nonna: Abbiamo diversi panettieri nel raggio di qualche chilometro da casa, ma tutti utilizziamo Google per le nostre ricerche, indipendentemente non solo dal quartiere ma anche dalla città in cui ci troviamo. Per questo dopo poco tempo diventa molto più facile aprire una nuova panetteria che un nuovo Google.

Nonna: “Ecco, il panettiere è un lavoro vero!”

In quest’economia digitale chi aumenta di scala vince tutto. Anche per questo il digitale corre in fretta, per ogni nuovo ambito economico che si offre alla disruption, ci sono decine di start up che puntano a diventare il nuovo servizio dominante. Accentramento e monopolio sono fra i concetti più rilevanti nell’economia digitale. Il meccanismo segue il principio della palla di neve che diventa una slavina, o, se preferite rifarvi alla poesia italiana dell’800, “piove sempre sul bagnato”.

Per cui finché Facebook è un sito che utilizzano in pochi, avere un profilo è totalmente opzionale, successivamente, quando l’uso del sito si diffonde in una parte rilevante della popolazione, la fase in cui siamo oggi, avere un profilo diventa gradualmente necessario per svolgere un crescente numero di lavori, infine, nell’ultima fase, non avere Facebook (o un suo futuro equivalente) significherà semplicemente non avere un’identità.

La frase “Non ha facebook” perderà allora ogni valenza esotica e genererà sospetto e , ammesso che una scelta del genere rimanga legale, equivarrà molto probabilmente ad avere una cittadinanza dimezzata (o ad essere miliardari, ai miliardari si perdona tutto). Insomma nel migliore dei casi la vita analogica diventerà un lusso per pochi.

Con tutti questi distinguo e le fosche prospettive del caso, ciò non toglie che al momento mettiamo ancora online i nostri dati su una base tendenzialmente volontaria.

Tendenzialmente perché non esiste un obbligo di legge ma, appunto, nella misura in cui un fetta crescente del lavoro e della vita sociale passano dall’utilizzo di questo tipo interfacce digitali, non si può più definirla neppure una scelta totalmente volontaria. È anche per questo motivo che la gestione dei dati e la tutela della privacy sono temi che non possono essere semplicemente elusi con l’argomento “nessuno ti obbliga”. Troppo semplice e, come andremo a vedere soprattutto pericoloso per la democrazia e, ebbene sì, anche per la felicità umana.

 

mattia-buffoli-02 Mattia Buffoli - la defense

 

La privacy non esiste da sempre
“Nemmeno la sorveglianza digitale”

Uno degli argomenti preferiti nella Silicon Valley riguardo alla privacy è che si tratta di un concetto di cui l’umanità ha fatto a meno per la maggior parte della sua storia. Il tipo di obiezione da ingegneri che fa cadere le braccia ad un umanista, e a cui è fin troppo facile ribadire che l’umanità ha fatto felicemente a meno degli iPhone per un periodo di tempo anche più lungo. Zuckerberg ama ripetere che la privacy è un concetto del passato, personalmente mi piace pensare che questo giudizio possa essere lievemente influenzato dal fatto che il suo patrimonio personale nel momento in cui scrivo ammonta a 46.6 miliardi di dollari*, soldi fatti con un’azienda la cui attività contrasta largamente con il concetto di privacy. Può darsi che incida, chissà.

*( erano 47.1 ieri, ma secondo Forbes oggi ha perso un mezzo miliardino, quella che si dice una giornata no)


“La privacy potrebbe essere un’anomalia”
Google Executive, Vinton Cerf

Il credo della disruption della Silicon Valley segue un principio che il più delle volte si può riassumere nel concetto “intanto fai le cose, poi vedi se sono legali”, allo stesso modo se si possono fare miliardi di dollari mettendo in pericolo l’esistenza della sfera personale delle persone, basta dire che la privacy di fatto ha smesso di esistere o che comunque 150 anni fa non c’era.

In realtà se il concetto di privacy è effettivamente recente, è perché lungo la maggior parte della storia umana il potere non si è mai interessato nello specifico alla vita delle persone, cittadini o sudditi che fossero, finché questi rispettavano la legge e l’autorità. Certo i grandi regni ed imperi potevano cercare di raccogliere dati ma la scarsità dei mezzi tecnici a loro disposizione non li faceva andare molto lontano, senza contare che la maggioranza dei regnanti non vedeva nemmeno l’utilità di una simile pratica. Nella maggior parte dei casi la legge veniva fatta rispettare, più che con la sorveglianza onnicomprensiva, con l’utilizzo di pene estremamente efferate e simboliche. Il potere colpiva cioè duramente proprio perché dava per scontato che non sarebbe riuscito a punire tutte le infrazioni. Il filosofo Michel Foucault ha lavorato a lungo su questo argomento individuando nella nascita degli stati nazione il momento in cui il potere intensifica davvero l’osservazione e l’organizzazione della vita dei cittadini. Ed è a partire da questa tendenza, accompagnata dallo sviluppo crescente della tecnica, che nel tempo nascerà il bisogno di privacy.

Lamentarsi del fatto che la privacy ha solo 150 anni insomma è come dire che prima dei fratelli Wright non esistevano le norme per le sicurezze dei voli. Sono lo sviluppo e l’aumento di efficienza dei meccanismi di sorveglianza, politica o commerciale, a far nascere il bisogno di una loro regolamentazione, non il contrario.

 

Ma io non ho fatto niente di male

Nella situazione attuale la nostra privacy è minacciata su più fronti. Ci sono i dati che scegliamo deliberatamente di condividere, spesso non considerando il fatto che pubblicare una foto di noi ubriachi con indosso un costume da carota su Facebook non è esattamente equivalente a mostrarne la versione stampata su pellicola ad un amico a casa propria. È più come pubblicare su quotidiano, con la differenza che dopo 24 ore non finirà ad incartare il pesce ma rimarrà disponibile per sempre. Nonostante le impostazioni sulle privacy che scegliamo di applicare ai nostri profili, una volta messa una cosa online c’è davvero poco che possiamo fare per arginare la sua diffusione. È anche possibile fallire un colloquio di lavoro per via dei contenuti pubblicati sui social, ma non sono ancora in molti a capire che quello che scrivono su Facebook è sostanzialmente pubblico, e non solo è perseguibile penalmente ma può anche influenzare pesantemente la loro vita.

 

mattia-buffoli-04 Mattia Buffoli - la defense

 

Poi ci sono tutti i dati che ci vengono presi (consapevolmente o inconsapevolmente) per scopi commerciali, dati che possono riguardare appunto le nostre spese, i nostri spostamenti, il nostro stato di salute. Per via di dati che non si sa nemmeno di avere ceduto ci si può vedere negare un prestito o un mutuo per la casa che dieci anni fa nelle stesse condizioni avremmo potuto ricevere. La banca riduce i rischi, la persona le speranze. Il vantaggio competitivo con i big data è sempre certo per chi li usa mentre rimane aleatorio per chi li subisce, senza contare che il più delle volte il meccanismo è oscuro, e più che una situazione da 1984 genera una sorta di processo kafkiano. Il verdetto della macchina è inappellabile quanto impersonale e misterioso per chi lo subisce.

Al terzo livello ci sono i dati raccolti da istituzioni e servizi di sicurezza. Snowden ha rivelato che i servizi di sicurezza americani hanno accesso praticamente ad ogni forma di comunicazione e ad una quantità incredibile di meta-dati, uno per tutti la geolocalizzazione. Per sintetizzare Snowden, che nella sorveglianza americana lavorava come consulente tecnico di alto livello, afferma che miglior principio prudenziale è “Assumere che qualsiasi nostra conversazione possa essere intercettata”. È lecito aspettarsi che la maggior parte, se non tutti, gli Stati tecnologicamente in grado di svolgere questo tipo di attività di sorveglianza all’occorrenza la svolgano. Nella geopolitica non esiste morale, solo rapporti di forza.

La National Security Agency americana ritiene intercettabili le persone fino al terzo grado di conoscenza con un sospetto. In altri termini chiunque, come si può vedere da questa simulazione del Guardian

L’obiezione ricorrente a questo punto è “Sì, ma io non ho fatto nulla di male, mi spiino pure”.

Ma chi sarebbe davvero disposto a cuor leggero, senza provare alcun fastidio né un sentimento di sopraffazione, a lasciarsi sorvegliare 24 ore su 24, farsi leggere gli sms, compresi quelli più intimi, le chat, le email, di lavoro e personali, lasciare che vengano raccolte informazioni sui propri spostamenti, gusti e consumi e, potenzialmente, venire ascoltato attraverso microfoni e filmato attraverso le videocamere dei propri dispositivi. Ok è molto, molto improbabile che si spinga davvero così in là con voi , ma la possibilità esiste e abbiamo, giustamente, gridato per anni contro regimi dittatoriali che avevano a disposizione una frazione di questo potenziale di controllo. Tutto l’ottimismo sulla sorveglianza si fonda su una presupposta bontà e l’infallibilità del potere che è storicamente tutt’altro che dimostrata, oltre che su un profondo fraintendimento sulla natura dell’essere umano. Il presupposto antropologico è cioè che l’uomo sia capace di assoluta bontà e assoluta giustizia. Follie da ingegneri o da regimi totalitari, appunto. Le barriere che perimetrano uno spazio di segreto e d’indipendenza attorno all’individuo, servono a proteggerlo dall’inevitabilità storica degli abusi di potere, compreso quelli perpetrati dal potere democratico.

 

Se hai fatto qualcosa di cui non vuoi che qualcuno venga a sapere, forse come prima cosa non dovevi farla
Eric Schimdt -Google Executive Chairman

Eppure le tecnologie di controllo si affermano perché spesso sono effettivamente in grado di salvare vite umane ed evitare tragedie, ma a che prezzo?

Nel romanzo “The Circle”, ambientato all’interno di una mega azienda frutto di una fusione di due giganti del web molto simili a Google e Facebook, Dave Eggers racconta benissimo come nuove idee di controllo e di sorveglianza nascano sempre per salvare degli innocenti, di preferenza bambini, idealtipo dell’indifeso e di fronte ai quale ogni pensiero critico viene mestamente ammainato.

Ma la trasparenza chiama altra trasparenza e molto in fretta Mae, l’innocua protagonista del romanzo, pur coltivando internamente qualche dubbio si ritrova ad essere la prima persona ad indossare una telecamera in grado di riprendere tutto quello che vede. È il prototipo di un prodotto che si pensa di mettere in commercio su larga scala (vi ricorda i Google Glass?), l’obbiettivo dell’azienda infatti è non lasciare più alcun angolo del pianeta nell’oscurità, nel mistero, nel segreto, o in altri termini: nell’indipendenza. Il progetto si afferma in fretta, soprattutto fra i politici, costretti dalla pressione dell’opinione pubblica, d’altro canto, non avrete mica nulla da nascondere? Indovinate chi finisce per guadarci da una situazione in cui un’azienda privata ha sotto controllo l’intero pianeta? Non è difficile da immaginare.

Esattamente come la Silicon Valley prospetta una vita migliore attraverso la più completa misurabilità e trasparenza del mondo, la maggior parte degli esseri umani crede di essere impeccabile.

Beh, spoiler alert: non lo siamo.

Sicuramente la stragrande maggioranza delle persone non sono certo dei terroristi, una larghissima maggioranza non è impiegata in attività criminali di alcun tipo, ma se vi concentrate un secondo e provate ad essere onesti con voi stessi trovate sicuramente più di una cosa che preferireste proprio tenere per voi o al massimo condividere con un numero limitatissimo di persone. È per questo che abbiamo bisogno di una sfera privata.

È la nostra natura.

È normale, fisiologico e giusto che si facciano anche cose che non vogliamo condividere o di cui poi finiamo per vergognarci. Litighiamo, ci sbronziamo, tradiamo, alle volte semplicemente non ci sforziamo di capire gli altri, siamo pigri ed egoisti e qualche volta gratuitamente cattivi almeno quanto altre volte possiamo essere generosi, altruisti, leali, gentili, ligi e efficienti.

Non siamo macchine, nonostante l’ansia da prestazione che avvolge il mondo assieme ad una sorta d’inespresso timore per l’imminente fine dei tempi, non siamo perfetti, proprio per niente, a dire il vero.

Ma poniamo per assurdo che siate una persona dagli attributi semi-divini in grado di compiere miracolosamente solo atti unanimemente irreprensibili (come se un’unanimità di questo tipo potesse mai esistere presso una specie animale che ha inventato i commenti su Youtube) non sarebbe profondamente scorretto un potere (a maggior ragione se privato) che vi sottoponesse a uno scrutinio tanto intimo? Cosa ne sarebbe della vostra stessa irreprensibilità se non fosse contemplata in alcun modo la possibilità di essere qualcosa di diverso?

In altre parole cosa resta della libertà in un mondo dove il comportamento scorretto non è nemmeno ipotizzabile perché viene immediatamente sanzionato? O addirittura sanzionato in maniera preventiva come nello scenario del film Minority Report?

Rimarrebbe all’uomo la stessa libertà che ha un computer o un automa di eseguire un comando: nessuna.

L’uomo che si sottopone senza ribellarsi, anzi spontaneamente, alla sorveglianza ubiqua e assoluta è l’evoluzione del corpo docile foucaultiano, è la mente docile, è privo di arbitrio e, in fondo, rappresenta l’inumano.

L’uomo diventa interamente misurabile, viene pensato dall’apparato tecnologico come un problema risolvibile, una variabile calcolabile alla perfezione; sostanzialmente come un’appendice della macchina. Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha espresso molto bene questo concetto ne “La società della trasparenza

L’obbligo di trasparenza riduce l’uomo a un elemento funzionale di un sistema. In ciò consiste la violenza della trasparenza.

 

mattia-buffoli-03 Mattia Buffoli - la defense

 

Nell’episodio pilota serie tv Mr Robot il piacere che proviamo a vedere il protagonista hackerare i profili di altre persone è duplice: il primo deriva in un certo senso dalla vittoria sulla macchina, i mezzi digitali apparentemente inviolabili che regolano la nostra quotidianità scandendone il ritmo, vengono violati con una semplicità che sa di rivincita prometeica. Il secondo è figlio della soddisfazione che proviamo nel vedere che sotto la liturgia della trasparenza, del politically correct e dell’efficientismo tecnico-aziendale, tutti hanno qualcosa di umano da nascondere.

Avete un bel dire che a voi non interessa se vi sorvegliano perché tanto non avete nulla da nascondere, sul lungo periodo l’esito di un argomento di questo tipo è che non potrete avere più nulla da nascondere.

Ma ancora una volta la possibilità del segreto, del mistero, non solo sta alla radice di ogni possibile forma di sacro, ma più semplicemente dell’umano.

A questo proposito Nietzsche ha detto

Non basta che tu ti renda conto dell’ignoranza nella quale vivono l’uomo e l’animale; è necessario che tu abbia la volontà d’ignorare e tu la apprenda accanto a quella conoscenza. Ti è necessario sapere che senza questo tipo di ignoranza la vita stessa sarebbe impossibile, che essa è una delle condizioni grazie a cui il vivente si conserva e cresce bene.

Chi arrivasse a possedere un potere di un controllo così profondo e radicale da illuminare ogni angolo dell’esistenza avrebbe di fatto un potere senza precedenti nella storia dell’uomo. Qualcosa che in termini meramente quantitativi andrebbe ben oltre quello che hanno posseduto i più efferati sistemi totalitari. Per quanto riguarda invece le qualità di un potere del genere , beh si può solo scommettere che chi si ritroverà con così tanto potenziale nelle mani non ne abusi, ma certo che sotto determinate condizioni il motto di Google “Don’t be evil” incominci un giorno a suonare come “La guerra è pace” di 1984 non è un’ipotesi del tutto peregrina.

Democrazia? Un po’ inutile

Nel frattempo anche in una fase intermedia, prima della “chiusura del cerchio” per usare l’espressione con cui Dave Eggers indica nel suo libro la trasparenza totale, la società regolata attraverso lo studio dei big data e la sorveglianza, è un luogo dove il bisogno di elezioni democratiche va gradualmente ad estinguersi. Le scelte politiche potranno essere desunte con coerenza algoritmica dai nostri dati personali e non è delirio complottista, è pensiero corrente nella Silicon Valley.

Sì, saremo anche unici e speciali, come ripete ogni spot sulla faccia della terra e sottintende ogni etichetta di birra artigianale, ma incrociando i dati patrimoniali, i post su Facebook, gli acquisti di libri su Amazon, i programmi su Sky Go e Netflix, le spese della vostra carta di credito, le vostre email personali, i dati riguardanti il vostro posto di lavoro, gli articoli che avete letto online, il vostro stato famigliare perché siamo pur sempre in Italia e magari avete un cugino candidato per un partito che non amate ma, ehi, è sempre mio cugino, beh incrociando tutto questo sarebbe già molto facile stabilire con un grado di efficacia molto alto dove andrà il vostro voto. Di più: l’errore può esistere ma probabilmente con l’esclusione di elezioni davvero molto tirate, già oggi non sarebbe rilevante per la validità del risultato

Inquietante?

Molti nella Silicon Valley vi direbbero più che altro “superato”. Chi avrà ancora bisogno della democrazia quando tutto l’apparato commerciale sarà già tarato grazie ai big data per fornire al consumatore la massima soddisfazione materiale possibile? Probabilmente solo chi questa soddisfazione non se la potrà permettere o la troverà comunque insufficiente ma, come dire, in ogni caso sapranno dove trovarlo.

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