Luca Pitoni sarà al Better Days Festival il 30 e 31 gennaio a Milano
L‘ingresso delle Edizioni San Paolo non somiglia a quello di una normale casa editrice di grandi dimensioni. Niente schermi luminosi, valletti in divisa, segretarie in tacchi, placche di metallo che indicano gli uffici di direttori e amministratori delegati. Sembra piuttosto di entrare in un collegio o una biblioteca. La gentile signora bionda con i capelli leggermente cotonati che ci consegna i badge è il perfetto complemento d’arredo di un atrio dove è il legno a fare da padrone. La luce fioca del tardo pomeriggio dona all’ambiente la serietà che ci aspettavamo di trovare. A fondare il gruppo editoriale fu don Giacomo Alberione nel 1914 in quel di Alba. La sua convinzione era quella di dover “portare Cristo con i mezzi di oggi“, ovvero quelli che si stavano facendo prepotentemente avanti ad inizio secolo: la carta stampata in primis e a stretto giro anche la televisione. Le Edizioni hanno un catalogo di circa 13 pubblicazioni cartacee, una televisione (“Telenova“) e una radio (“Marconi“). Tra le rivista l’ammiraglia è senza dubbio “Famiglia Cristiana” che, nata nel 1931, può considerarsi patrimonio culturale italiano tanto e forse più di altri periodici quali “L’Espresso” o “Panorama“.
Cristo e “mezzi di oggi” dicevamo. La nostra presenza qui oggi è appunto per capire cosa è accaduto in questi ultimi anni ad un gruppo editoriale che sembrava più inossidabile e inamovibile di altri e che invece ha cercato di cambiare volto in maniera sorprendente confermando che il mutamento tecnologico e stilistico dell’informazione (di qualunque genere) non fa prigionieri di nessun tipo. Negli ultimi tre anni infatti le principali riviste del gruppo, “Famiglia Cristiana“, la novella “Credere” e il patinato “Jesus“, hanno subito un redesign completo che ha fatto strabuzzare gli occhi a molti. “Famiglia Cristiana” ha aggiornato dopo molti anni la sua celeberrima testata in copertina così come gran parte della struttura interna. Viene lanciato da zero “Credere” la prima rivista pop del gruppo a cui seguono grandi aspettative commerciali. La punta di diamante intellettuale “Jesus” fa il giro del mondo dei tumblr e blog di settore grazie a nuove copertine ardite persino per un mensile tradizionale, figuriamoci per uno di stampo cattolico con contenuti destinati a un pubblico religioso. La più celebre di queste sfoggia addirittura il robot preferito della nostra adolescenza, Daitarn 3, mentre passeggia solitario su una spiaggia.
Improvvisamente l’informazione cattolica sembra capace di riprodurre i codici del design più raffinato e della comunicazione web più moderna abbandonando l’immaginario paludato da oratorio che l’accompagnava da troppo tempo. La persona maggiormente responsabile di questo capovolgimento estetico è il ragazzo che ci viene incontro nella reception: Luca Pitoni. “La cosa affascinante di un posto che ha cento anni di storia sono proprio i cento anni di storia, è una cosa che non si compra, bisogna prenderne atto. Lavorare qui è una sfida pazzesca, la cultura cattolica nel bene e nel male ha influenzato l’opinione italiana, questo è un bagaglio che puoi tentare di rimodellare se hai un committente che te lo permette. Il design è sempre legato alla committenza, devi riuscire a stare in quel mondo, in quell’ambiente in cui sono i tuoi lettori ma fornirgli qualcosa che sia attuale, progettato e ideato“.
Pitoni è ancora piuttosto giovane, classe 1982, eppure ha già un curriculum piuttosto impressionante. Oltre ad aver curato in passato il progetto grafico di Domus e Abitare è entrato a Il Sole 24 Ore giovanissimo partecipando al lancio di uno dei magazine più influenti in Italia degli ultimi anni. Quel IL Magazine che attraverso uno stile grafico pulito e moderno ha aperto le porte in Italia a una nuova generazione di riviste di grande tiratura ma anche con una speciale attenzione all’impaginazione grafica del prodotto. Proprio la notorietà del suo lavoro nel gruppo del Sole 24 Ore lo ha portato oggi qui in quello che editorialmente potrebbe essere il luogo d’approdo più improbabile. Le Edizioni San Paolo sono gestite dal ramo maschile della Società San Paolo da non confondersi con le Edizioni Paoline che appartengono invece al ramo femminile della congregazione. Una vera corazzata mediatica che non si occupa ovviamente solo di religione perché proprio come diceva il suo fondatore Alberione a proposito della rivista ammiraglia del gruppo: “Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana ma di tutto cristianamente“. Ad aver convinto Pitoni nell’improba impresa di redesign dei periodici del gruppo è stato Maurizio D’Adda. Manager anche lui proveniente da Il Sole 24 Ore. D’Adda è entrato nel gennaio 2012 come direttore generale delle Edizioni San Paolo. Primo laico ad avere un incarico così importante all’interno dell’editrice dei Paolini da cui però fuoriesce nel novembre 2014 dopo due anni durante i quali ha lanciato il nuovo settimanale “Credere” e il mensile “BenEssere“. “Il redesign di “Famiglia Cristiana“ era la vera sfida” conferma Luca “Nonostante la crisi questo è un giornale che vende 280mila copie e non lo leggono nei circoli hype di sinistra ma signore nei paesi. Quando vuoi fare qualcosa qui di moderno l’attenzione è massima perché è stato in parte la storia d’Italia ed è ancora molto letto. La cosa particolare è che arrivano decine di lettere al giorno, non email ma lettere vere, c’è un coinvolgimento sul giornale che è mostruoso“.
Come è stato recepito il tuo lavoro da chi manda le lettere al giornale?
La cosa un po’ pazza che abbiamo tentato di fare, e che in parte è stata capita, è che abbiamo elaborato un sistema alla gattopardo cambiando tutto perché non cambiasse nulla, questa è stata l’operazione su “Famiglia Cristiana“. Ho lavorato con due grafici: Giacomo Traldi e Mauro Bubbico. Lui in particolare è un personaggio davvero speciale che vive a Montescaglioso in provincia di Matera un paesino sperduto e che sfrutta un immaginario popolare da mercato che lui reinterpreta in maniera contemporanea. Ad esempio abbiamo usato questo carattere che si chiama “Britannic” e lo abbiamo scelto proprio perché è quello con cui si scrivono tutti i cartelli. Ad esempio è quello con cui si scrivono i messaggi quando si rompe l’ascensore, quindi è qualcosa che hai già visto molte volte. Quando cambi tutto devi mettere qualcosa che è dentro il tuo DNA, che è riconoscibile, dai al lettore un ambiente che è già visto e che è familiare così sembra un giornale che ha già sfogliato e invece chi lo sa decodificare capisce i riferimenti. Il trucco nella grafica è mimetizzarsi, non farsi vedere troppo, in fondo il giornale non è mio, io lavoro per gli altri. La storica rubrica “I fatti del giorno” ad esempio è straordinaria perché viene disegnata ancora a mano. Le illustrazioni le porta qui in redazione un vecchiettino di ottanta anni che le raccoglie dagli altri vecchiettini suoi colleghi. Sono cinque collaboratori che lavorano da casa, loro fanno tutto in autonomia, selezionano la notizia “strana ma vera” da illustrare. È qualcosa di completamente anacronistico, oggi al loro posto ci sarebbe ovviamente una foto ma nel progetto di rinnovamento l’ho voluta lasciare perché mi sembrava assurdo volerci rinunciare, è troppo identitaria.
Ora che sono passati due anni dal redesign di “Famiglia Cristiana” puoi fare un primo bilancio
I bilanci potrebbero essere due. Dal mio punto di vista, oltre le vicende complesse dell’oggi, è ottimo è stata un’esperienza innovativa, si è tentato di cambiare e sono sicuro che molto di quel che abbiamo fatto rimarrà nell’idea di come si fa un giornale in maniera diversa. Dal punto di vista commerciale dell’editore non lo so, è difficilissimo trovare la quadra di tutto: delle vendite, della qualità, di quel che vogliono i lettori, di quel che pensi loro vogliano. “Famiglia Cristiana” è un giornale che funziona ancora, “Credere” ha creato un movimento quando non esistevano giornali come “Il mio Papa” o simili. La sfida di fare grandissimi numeri con quei giornali lì è persa in partenza, non si possono più fare i grandi numeri, per questo le uniche riviste che vanno bene in edicola sono le quelle indipendenti inglesi e tedesche che si accontentano di vendere duemila copie, quelli sono numeri fattibili soprattutto in Italia. Queste sono le uniche sostenibili, non puoi pretendere di fare centomila copie di “Credere” come si pensava all’inizio, le puoi fare per un po’ ma non a lungo, neanche se fai il giornale perfetto.
Hai lavorato principalmente a tre riviste: “Famiglia Cristiana“, “Jesus” e “Credere“. Chi è il pubblico di ciascuna rivista?
“Jesus” è un caso a parte: ha un linguaggio impegnativo, per dirla in maniera commerciale è per operatori del settore, distribuita soprattutto in abbonamento, in poche edicole e ha delle vendite stabili. In “Famiglia Cristiana” c’è una sorta di incomprensione perché a parte la testata esplicita buona parte dei contenuti del giornale sono simili a quelli di un “Espresso“. Le prime sessanta pagine sono identiche, è una rivista che è cambiata molte volte ma c’è un percepito che è tipico di una rivista con questo nome. Per farti un esempio buffo sul personale mio padre è un ex del Partito di Unità Proletaria e non l’aveva mai toccata in vita sua, adesso che lavoro qui ha preso a leggerla ed è diventato un fan spassionato mi dice sempre “l’ho letto su Famiglia Cristiana“. Non l’avrebbe comprata mai ma la qualità dei contenuti è molto alta. In questo il lavoro che abbiamo fatto aiuta la qualità perché se uno prende in mano un oggetto che è piacevole ti rendi conto che non stai guardando un testo scritto in word ma un qualcosa che ha una forma e una direzione. Però mi rendo conto che per quanto io sia un designer il design non salva il mondo
Ah no?
No, credo nella sua importanza, come nel fatto che più vedi cose belle e più il tuo gusto si raffina, in questo la grafica aiuta ma non salva gli editori.
Su Tumblr è circolata molto creando un certo scalpore la copertina di Jesus con Daitarn 3. Come è nata una cosa del genere?
Essendo una piccola nicchia, una piccola tiratura, circa diecimila copie, “Jesus” si permette di essere molto chic. Quella fatta in questo caso è stata un’operazione più scontata rispetto alle altre: trasformare un giornale serioso in una qualche cosa che fosse possibile trovare in un negozietto hipster di Berlino. I contenuti sono molto alti, è una sorta di “Internazionale” ma cattolico e si poteva trasformare in un giornale “fighetto“, a partire dalla scelta della carta, qualcosa che ti comunicasse la sensazione che fosse un prodotto da leggere e conservare. Nel caso di Daitarn ci si interrogava sul tema del postumano ovvero bloccare la deriva eugenetica e scientifica, un tema che interessa la cattolica. Giovanna Calvenzi che è la vulcanica photo editor del gruppo assieme a Marta Posani ha proposto un lavoro su questi cosplayer che ho trovato subito straordinario e che siamo riusciti ad utilizzare dopo un lungo lavoro di convincimento del direttore. A ben pensare forse c’era anche un po’ di ironia nelle nostre intenzioni.
“Credere” è stato lanciato da zero da subito con una tiratura di duecentomila copie, un varo del Titanic, come ti sei approcciato ad un lavoro del genere?
Questo è stato il primo lavoro che ho fatto appena entrato, è stato fatto in un’estate, assieme a Matteo Dall’Olio, lui è un grande appassionato d’arte e avevamo pensato che per un giornale di questo tipo l’obiettivo fosse quello di rimanere popolare. Qui in San Paolo se ne parlava come de “La Gazzetta dello Sport della fede“, un qualcosa che fosse ad alta tiratura ma che rimanesse anche una rivista dei Paolini che notoriamente sono attenti ai contenuti e didattici in quel che fanno. L’obiettivo era insomma creare un pop alto. Per fare questo abbiamo cercato di imitare l’atteggiamento di alcuni artisti nella storia dell’arte che sono riusciti a fare cose molto raffinate ma anche popolari. I nomi guida a cui ci siamo ispirati sono stati Leon Battista Alberti e Giotto. Il primo nell’architettura e l’altro nella pittura. Giotto era una sorta di fumettista ante litteram, era una persona con un’azienda di venti dipendenti, aveva un’industria, non gliene fregava niente dei grandi concetti, produceva storie illustrate per le persone che andavano a messa e che non sapevano leggere. Abbiamo provato a rifare quella cosa lì, sembra pretenzioso detto così ma era il nostro scopo, fare un giornale lineare, semplice che però avesse questo guizzo artistico nei colori raffinati, desse molto spazio alle opere d’arte, lavorasse nella sensazione che ci fosse un’eleganza pur nella semplicità. Pop vuol dire questo non sicuramente trash.
Facciamo un giro nei corridoi della redazione. Si sale al secondo piano con quello che loro chiamano montacarichi ma che è fondamentalmente un ascensore più grande del normale. Una delle sale riunioni è una sorta di biblioteca piena di volumi estremamente ingombranti che sembrano non essere stati toccati da molto molto tempo. Su un piccolo ripiano ad una delle estremità del tavolo ci sono dei trofei. Se non sapessi di essere in una casa editrice scommetterei di trovarmi nella sede milanese di Hogwarts aspettandomi di veder spuntare da un momento all’altro Silente. Così come accade alle innovative trovate grafiche di Luca e del suo team anche l’arredamento e i dettagli degli uffici che si allontanano da ciò che è prevedibile fanno un effetto stranamente doppio. Il diorama in cui Luca veste i panni del Papa regalatogli dai colleghi appoggiato sulla scrivania così come la maschera di Papa Francesco accostata al gagliardetto dell’Inter appesa ad una delle pareti della redazione sono delle decorazioni del tutto normali per una squadra che si occupa di cultura pop ma che in un ufficio che mescola giornalisti laici a preti giornalisti assume subito contorni sorprendenti. Il mobilio, le tapparelle e le scrivanie sono rigorosamente in stile anni 70, scendendo in giardino ci fermiamo un po’ davanti alla statua di Giacomo Alberione che di tutto questo non è soltanto il padre spirituale ma il fondatore materiale. Luca indica una palazzina sullo sfondo “Una volta anche quella era piena di giornalisti delle Edizioni San Paolo, ora è stata affittata ad altre aziende“. La sensazione che sia un momento di passaggio professionale per lui ma anche per il gruppo editoriale in cui si trova a lavorare è palpabile e attraversa tutta la nostra conversazione. Facciamo un salto nel passato, per capire da dove nasce la sua passione per la grafica e il design, ripercorrendo a ritroso il proprio percorso e cercando di capire come mai l’art director famoso per aver disegnato riviste d’architettura e “IL – Intelligence in Lifestyle“, la rivista hipster italiana per antonomasia, sia arrivato a ricostruire l’immagine al gruppo editoriale cattolico più grande d’Italia. “Sono finito dalla provincia di Rieti qua a Milano al Politecnico quasi per caso” ricorda Luca che continua: “Mi sono detto “forse mi potrebbe interessare il design…”, ero sempre stato appassionato d’arte, dipingevo, facevo incisioni. mi piaceva fare con le mani ma il legame con la mia attività è stato casuale. Dai miei studi al Poli è nata la passione vera, quella irrefrenabile, questo anche grazie ad alcuni docenti. Per me Mario Piazza è stato un maestro quello che ti insegna tutto, lui e Mara Campana, la responsabile di corsi alla Scuola Bauer, sono le persone che mi hanno influenzato e mi hanno convinto a fare il grafico”.
E poi?
Iniziando a lavorare per Mario Piazza mi hanno incaricato assieme allo studio Leftloft di rifare la segnaletica dello Stadio San Siro, che per uno che non era mai stato allo stadio era una bella sfida. Ho passato un inverno a fare rilievi panchina per panchina. Poi sono passato a lavori editoriali: prima “Domus“, poi ho fatto il progetto di “Abitare” e ho iniziato a specializzarmi in questo ambito. Mario Piazza era stato contattato per fare il progetto di una nuova rivista per “Il Sole 24 Ore” ma i responsabili hanno deciso di continuare il progetto solo con me. Nella mia totale ingenuità ho accettato subito passando dunque da uno studio di tre persone ad un’azienda con millecinquecento dipendenti con l’obiettivo di fare una nuova rivista che era “IL Magazine“, creando il team e tutto il resto. Pensa che la riunione d’assunzione era con Ferruccio De Bortoli che io non avevo mai visto prima. Avevo 24 anni.
Come l’hai convinto ad assumerti?
Ero talmente ignorante di quanto fosse grande e importante la situazione da non avere nessun timore, dicevo e facevo quello che pensavo, ma se ci penso adesso ero un vero incosciente. Facevo riunioni con De Bortoli e l’amministratore delegato del Sole dicendo “la rivista la voglio fare con i titoli neri” non sapendo che era un colore detestato dal direttore e che questa scelta mi sarebbe potuta costare il lavoro. Questa incoscienza però ha permesso di realizzare un progetto importante con un bel seguito e i miei rapporti con loro sono sempre stati ottimi.
Poi Maurizio D’Adda che era al Sole con te è diventato direttore generale dei periodici San Paolo e ti ha proposto di venire qui. A questo proposito te lo devo chiedere per onestà la mancanza di fede di cui mi parlavi ti ha mai creato problemi nell’ambiente di lavoro?
Assolutamente mai e sono rimasto piacevolmente stupito. Sono arrivato qua dubbioso per la sfida, ma le Edizioni San Paolo sono iscrivibili a un lato molto aperto, molto di dibattito, all’interno del frammentatissimo universo cattolico. Nella redazione non ci sono religiosi e sono molto aperti e questo si riscontra anche nel modo in cui si scrive negli articoli, semplice ma efficace.
Questa ricerca della semplicità e del pop è il motivo per cui non ti piacciono le infografiche? Perché spesso sono complicate?
Le infografiche non sono complicate, lo sono le infoestetiche che si fanno oggi. L’infografica è una cosa che la guardo e devo capire subito, altrimenti mi leggo il pezzo a cui si accompagna che è ben scritto e approfondito e funziona. Se devo passare quarantacinque minuti a leggere la legenda per capire come si intrecciano i fili nell’infografica del “Corriere Della Sera” quella per me non è infografica, è qualcosa che non serve a niente.
Ma lo dici proprio tu che sei il principale responsabile di “Il – Intelligence in Lifestyle“, che è la rivista che ha reso nuovamente popolari in Italia l’infografica e una certa complessità nell’impaginazione…
La prima stagione di “IL” è molto diversa da quella che c’è ora, era un giornale che quando è stato lanciato usciva in allegato su tutta la tiratura del Sole e quindi tirava trecentomila copie, la trovavo una sfida pazzesca il tentativo di fare una rivista “design oriented” in allegato a un quotidiano piuttosto paludato. Oggi è una rivista in cui potresti scrivere qualunque cosa in ogni pagina perché è la veste che è più importante del contenuto. Io faccio il grafico ma a me interessa lavorare in riviste che scrivono cose interessanti, altrimenti si tratta di vestire i manichini, a me invece piace vestire persone vere. “IL” oggi è un portfolio fichissimo per chi ci lavora ma non è una rivista, è un oggetto grafico.
Sono le sei del pomeriggio e la redazione è quasi completamente vuota. C’è un’aria tesa tra i colleghi di Luca perché al piano di sopra è in corso un’assemblea sindacale piuttosto importante. Anche le Edizioni San Paolo come accaduto negli ultimi mesi a molti altri gruppi editoriali italiani è in forte crisi e sta prendendo in considerazione una ristrutturazione interna che porterà al classico taglio del personale. Impossibile non pensare che oltre la mutazione estetica di cui abbiamo parlato fino a questo momento ce ne debba essere una ancora più radicale e strutturale nel metodo di lavoro. Un trauma per qualunque redazione, forse ancora più profondo per un gruppo così legato alla propria ingombrante storia. Un rapporto quello tra il metodo di comunicare del mondo cattolico e il resto del panorama mediatico che Luca ha sviscerato a fondo anche in un suo recente discorso per la Scuola Politecnica di Design e che è il vero cuore del discorso che ha portato avanti fino a questo momento e del perché in tanti lo hanno trovato così dirompente. “Per 2000 anni la religione cattolica è stata l’entità che ha prodotto il bello in occidente, è pazzesco come abbiano perso un bagaglio straordinario di attenzione all’estetica” ripete Luca “C’è stata una mancanza di connessione con il presente con prodotti come giornali, libri. All’inizio forse c’era ingenuità, in fondo il primo numero di “Famiglia Cristiana” è stato fatto da tipografi, poi con la scomparsa della scuola tipografica è come se non si fossero accorti dell’arrivo del design“.
Sempre nel tuo discorso all’SPD hai detto che il tuo lavoro è stato in qualche modo quello di ridisegnare il mondo cattolico
[RIDE] Forse ne ho dette troppe di cazzate. La grafica è uno strumento di servizio: ho iniziato con la segnaletica e faccio riviste con grandi tirature, sono contento quando il mio lavoro arriva a tanta gente. Sono felice quando il mio cartello all’aeroporto lo vedono migliaia di persone e trovano il bagno che stavano cercando, quella è una cosa che serve davvero. Credo che farsi il proprio giornaletto da mille copie sia una cosa un po’ sterile anche se piacevole.
Il tuo lavoro di redesign è coinciso con l’arrivo mediaticamente dirompente di Papa Francesco, l’operato di una figura di “cyberteologo” come quella di Antonio Spadaro (social media manager del Papa e direttore di Civiltà Cattolica) che definisce il Papa come un “social network“. Solo un caso o si tratta di un progetto coordinato della cultura cattolica per rimettersi in discussione e ritrovare rilevanza e modernità?
Hanno capito che va tutto cambiato, che la semplicità è la cosa fondamentale, l’essere immediati. Se vai a guardare i contenuti teologici tra un Papa e un altro non è che ci sia tutta questa differenza, è tutto nei mezzi, nel linguaggio e nella sua gestione. Quelli di cui parli sono fenomeni che nascono da un clima comune di necessità di cambiamento, alla fine è una specie di lifting. Vanno fatte delle scelte, le scelte creano identità e avere identità è un vantaggio. Essere né carne né pesce per cercare la popolarità non è vantaggioso. Papa Francesco è un astuto gesuita con una linea di comunicazione ben precisa: semplicità a tutti i costi. Così tocca solo gli ammalati, va solo in periferia, apre le Porte sante in Africa, tutte cose che escludono il classico cerimoniale. Si tratta di un progetto di comunicazione ben preciso che si prende il rischio di rinunciare a una fetta del proprio pubblico, quello legato al potere tradizionale.
A proposito di rischi, qui c’è aria di smantellamento, tu dove stai andando?
Non lo so, sicuramente sto andando da qualche parte. Come dicevamo ci sono dei cicli, si arriva ad un apice e poi diventa routine e quello è da evitare. La situazione Periodici San Paolo è molto complessa, c’è una riunione sindacale in corso, tutta la grande editoria attraversa un periodo simile. Non si può pensare che una redazione di un giornale che vende quarantamila copie sia fatta da trenta persone. Se vedi le piccole riviste indipendenti europee che ora vanno bene, mi viene in mente “The Gourmand“, sono in tre persone fisse a fare la rivista. Inutile cercare revenue in giro: su internet, ipad etc, tutti i modelli sono sostenibili se vengono ripensati da zero. I grandi editori devono ristrutturarsi, è impensabile credere che assumendo qualcuno che rifà il progetto grafico del “Corriere della Sera” e questo possa vendere improvvisamente 700mila copie…
Ci vuole un miracolo?
Ci vuole un miracolo! Ma se non ce l’abbiamo fatta neanche noi qua a San Paolo che abbiamo la linea diretta con Lui lassù…abbiamo fatto l’udienza col Papa ma non è servito.